Risale al 2010 la prima bozza di sceneggiatura de Les oiseaux ivres che, dieci anni dopo, diventerà il secondo lungometraggio di Ivan Grbovic, regista nato a Montréal nel 1979 la cui filmografia è composta anche di cortometraggi e videoclip. Alla base di quell’idea iniziale, la «sensazione di stupore» che colse Grbovic nel 2005 quando, passando in macchina nella piccola città agricola di Saint-Rémy, in Québec, vide comparire dalla nebbia «una fila di uomini messicani. L’immagine era bella, intrigante, inverosimile, sembrava un sogno». Quegli uomini erano migranti stagionali che lavoravano nei campi canadesi. E dello slittamento spazio-temporale, del corto circuito che si attiva soprattutto nella mente, nei ricordi, nei pensieri, di una dimensione costantemente fluida tra realismo e patina visionaria, di cose accadute/immaginate, Les oiseaux ivres (vincitore della trentunesima edizione del Noir in Festival di Milano terminata mercoledì scorso) è permeato in ogni sua scena.

SIAMO in Canada, ma sembra di essere in Messico. C’è il Messico in Canada, e viceversa. Si parlano lo spagnolo e il francese distorto del Québec. La reale collocazione sfugge e deviazioni dal set principale (i campi per la raccolta della lattuga, le baracche dei lavoratori), verso grattacieli, strade metropolitane deserte, una discoteca, creano ulteriore disorientamento. Nel descrivere, usando il «noir» come pre-testo, in particolare quel che accade a due personaggi (il giovane messicano Willy, che fu costretto a separarsi dall’amante Marlena, giovane moglie di un boss di Città del Messico, e che continua a cercarla perché si erano promessi di ritrovarsi in un posto meno pericoloso; e la canadese Julie, che con il marito gestisce la proprietà agricola e attraversa una crisi familiare), e la nostalgia, la solitudine, la malinconia tanto dei contadini quanto della donna che cerca attraverso il sesso con dei migranti un suo possibile ri-trovarsi, Grbovic realizza un film dove gli st(r)ati temporali si succedono e accostano «in consecutiva» anche all’interno di una stessa inquadratura per testimoniare con questo espediente formale lo spaesamento in cui sono immersi i protagonisti.
«Noir» è un termine che il festival ha declinato in tante forme espressive e narrative. Si pensi a due dei film presentati fuori concorso, Nimby – Not In My Back Yard (dal 14 dicembre in sala e in rete su iwonderfull.it) del finlandese Teemu Nikki e Censor della gallese Prano Bailey-Bond. Una commedia sociale nera e un dramma che vira nell’horror. Al quarto film, Nikki (che si era fatto notare con il disturbante Euthanizer, del 2017) usa come spunto la storia d’amore tra la finlandese Mervi e la tedesco-iraniana Kata, e il viaggio che le due ragazze compiono nel paese natale della prima, per presentare ai genitori la fidanzata, per comporre, inserendo però troppi elementi e una varietà di personaggi che infine non risultano andare oltre la caratterizzazione chiusa in se stessa, il ritratto di un piccolo (metafora di un grande) mondo che rischia di scoppiare, ma dove poi tutto sembra risolversi.

TRA I GENITORI di Mervi che la figlia scopre a fare sesso scambista con la coppia formata dal reverendo e dalla moglie e il cui figlio fa parte di una banda di neonazisti guidata da un folle che predica l’avvento di una nuova società, mentre immigrati mediorientali sono presi di mira così come le ragazze lesbiche. Che, nell’epilogo, riavranno, lontano da quel posto, la loro intimità.
Più rilevante Censor, opera prima di Bailey-Bond che esordisce con un film dove si intrecciano irrisolte questioni familiari, politica, mistero e horror. Siamo nella Gran Bretagna degli anni Ottanta dominati dall’intransigenza di Margareth Thatcher al potere e dalle restrizioni praticate. Ipocrisia, bigottismo, censura. È in atto una campagna diffamatoria contro gli horror splatter distribuiti in videocassetta che fanno la fortuna delle videoteche. Ancor più se dei killer si ispirano a dei film di quel genere per compiere i loro omicidi. L’originalità di Censor sta nell’avere per protagonista una giovane donna, Enid (l’attrice irlandese Niamh Algar, convincente nel tracciare le mutazioni del suo personaggio), che di mestiere fa il censore cinematografico lavorando con colleghe e colleghi in un ufficio a visionare valanghe di vhs horror sottoposte alla commissione. Enid è scrupolosa, quasi maniaca, annota su un taccuino le scene da amputare, non si fa coinvolgere.

FIN QUANDO un film le riapre in maniera ancora più profonda il dolore mai superato per la sorella scomparsa da piccola, che ancora oggi non vuole credere deceduta mentre i genitori vorrebbero venisse, a distanza di molti anni, decretata la sua morte e uscire così dall’incubo. E le fa pensare che la sorella non solo potrebbe essere viva, ma essere diventata un’attrice di quegli horror da vendere sottobanco. Al realismo che documenta la meticolosità lavorativa di Enid, il suo rapporto con i genitori, le tensioni provocate dal regime thatcheriano, subentra lentamente e poi ad alto volume la «fuga» della donna nel mondo di quegli horror fatti in casa, sprofondando, come colta dalla sindrome di Stendhal, in quelle immagini, «risucchiata» dal videoregistratore, dal televisore, dalle immagini che trasmette. E in quell’altrove, luogo dell’immaginazione che esso solo può ri-accogliere la famiglia, Enid rimarrà intrappolata. Cinefilo e metafilmico, Censor trasmette un’atmosfera di disagio e riporta in primo piano la memoria (e la nostalgia) di una fruizione analogica, fragile, fisica, deteriorabile, delle immagini su nastro.