Una giovane madre scherza con la figlia in una stanza bagnata da una luce morbida. La ragazza si contorce sul letto mimando un pianto infantile mentre la bambina la scruta: chi è davvero l’adulta? Chi protegge chi? Chi veglia su chi? Capelli rossi, pelle chiara, occhi profondi, le due escono nel sole di una Roma deserta e si aggirano per strade che il cinema ci ha abituato a conoscere: i viali alberati, le mura antiche, il Tevere, gli argini del fiume, i ponti maestosi, la statuaria in marmo candido. In questo paesaggio immenso e spopolato si portano appresso un grosso bagaglio: è il fardello dell’esistenza, la zavorra della memoria o l’ingombro pauroso del futuro incerto? Risuona una canzone popolare di Massimo Ranieri, Se bruciasse la città, una di quelle che alle prime note scatena in ciascuno una furia di ricordi e malinconie.

DA DOVE vengono e dove mai possono essere dirette le due in una giornata torrida e spettrale di un tempo fuori dal tempo? Una sosta sotto le fronde di un parco, qualche capriola tra gli alberi, una corsa giù da una scalinata. Poi sul parapetto di un ponte pensieri oscuri sembrano prendere il sopravvento sulla donna. La prospettiva di una fine sembra farsi per lei miraggio di una liberazione, ma si tratterebbe di una fuga in solitaria. Le due invece sono legate da un filo sottile e tenace di complicità. La piccola osserva la madre, sembra intuirne i moti più reconditi dell’anima e si carica sulle spalle quella responsabilità che ogni «bambino dotato», per citare Alice Miller, sente su di sé: quella di rispondere alla domanda del genitore, una domanda di affetto disperata e mai paga.

È FATTO di sguardi, silenzi e gesti minimi densi di senso BMM. Being My Mom, presentato a Venezia in concorso nella sezione Orizzonti, ed esordio alla regia dell’attrice Jasmine Trinca, che aveva anche pensato di interpretare il personaggio ispirato alla sua stessa madre. «Dopo la sua morte ho capito come il suo sguardo mi aveva sempre influenzato», ha spiegato l’autrice. Il ruolo della madre è stato infine affidato ad Alba Rohrwacher definita da Trinca «una Buster Keaton con la sensualità di una pantera» mentre nei panni della figlia c’è la giovanissima Maayane Conti. La Roma in cui si muovono le due presenze è uno spazio dell’anima, quella che compiono insieme è «una passeggiata metaforica sulle strade luminose e oscure della maternità e di ogni figliolanza». Eppure, la dedica e la fotografia con cui si chiude il film ne fanno l’omaggio di una figlia a una madre che non c’è più e che grazie al cinema è possibile riabbracciare. Una madre, Stefania Inciocchi, che lavorava al manifesto nella cui redazione la stessa piccola Jasmine talvolta l’accompagnava.