Come Divide and Conquer, anche The Front Runner, arriva nelle sale americane sfruttando la coincidenza con il momento elettorale. E, come il documentario di Alexis Blum, questa produzione Twentieth Century Fox con Hugh Jackman e un supporting cast di prestigio, è incentrato sulla storia del nodo complicato e tra il sistema politico americano e i media che lo raccontano. Scritto da Jason Reitman (che dirige anche) insieme al giornalista Matt Bai e a Jay Carson,

il film è, per certi versi, un anti-Tutti gli uomini del presidente. Il ruolo della stampa qui, infatti, non è glorioso come quello del «Washington Post» di Woodward e Bernstein bensì problematico. Reitman e Bai rispolverano un episodio della recente storia Usa che, nell’era di grab them by the pussy, e del vestito blu macchiato di sperma di Monica Lewinsky, sembra un rassicurante reperto d’antiquariato.

Ma, secondo il loro film, è proprio in quell’episodio che starebbero i semi del nuovo rapporto tra media e presidenza che ha caratterizzato sia gli anni di Clinton che l’ascesa di Trump. «Cut» e siamo nel 1987, Gary Hart (Jackman), il giovane ex governatore del Colorado, è in dirittura per la nomina democratica alla Casa bianca. Bello, appassionato, eloquente e dotato della classica famiglia da fotografia, Hart è una luminosa promessa del partito per invertire la rotta, dopo due mandati di Reagan.

È ANCHE UOMO sicuro di sé e delle sue convinzioni, tra cui figura quella di non parlare mai della vita privata con i giornalisti. Pettegolezzi sulle sue infedeltà spifferati al Miami Herald, negati da lui (che stupidamente sfidò la stampa a pedinarlo) ma poi cristallizzati nella foto abbracciato a una ragazza bionda di nome Donna Rice, dopo una serata festaiola a bordo di uno yacht chiamato Monkey Business, presero sopravvento sul coverage nazionale mettendo fine entro breve alle sue speranze e a quelle del partito.

Hart fu il primo candidato presidenziale della storia moderna Usa affondato da uno scandalo sessuale. «C’è stato un momento nel 1987 quando per la prima volta abbiamo cominciato a pensare e a trattare i politici come celebrities e gente di spettacolo. Quando crei una cultura delle celebrities nel tuo sistema politico finisci con politici che sono celebrities», ha detto Matt Bai in una recente intervista al «New York Times».