Le migliaia di persone che a luglio 2001 arrivano a Genova da ogni parte del mondo e d’Europa hanno le idee chiare: la storia non è finita. La globalizzazione neoliberista, uscita vincitrice dal «secolo breve», non ha liberato le persone dal bisogno.
I conflitti sociali e politici – affermano i movimenti riuniti sotto lo slogan «voi G8 noi 6.000.000.000» – non sgorgano più dalle ideologie (spesso tradite), ma dalle drammatiche condizioni di vita dei popoli e degli individui tagliati fuori dal paradigma dello sviluppo quantitativo illimitato, dai miti del progresso cari sia al capitalismo occidentale sia a molte esperienze del socialismo reale.

C’è un sud per ogni nord, una periferia per ogni centro: sono questi gli assi – simbolici oltre che territoriali – lungo i quali si dipanano le nuove lotte. Tanti esclusi contro pochi integrati si potrebbe dire, se non fosse che è proprio quel termine, «contro», a non essere più capace di spiegare la realtà del conflitto che i movimenti portano a Genova.
La nuova aspirazione non è costruire qualcosa «contro», ma qualcosa «per». L’idea che si coagula nei dibattiti pubblici a Genova non è di proporre un mondo a specchio, ma, come suggerisce un’ispirazione culturale che ha nella Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire la sua radice più nitida, quella di superare una volta per tutte la contraddizione per cui l’oppresso «non aspira a liberarsi, ma a identificarsi con il suo opposto».

È per questo che il movimento fa paura e a Genova trova, come unica risposta, una nuova gestione dell’ordine pubblico, funzionale alla tutela e alla conservazione della città dei garantiti.
Nel bel libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci – L’eclisse della democrazia, 2021 (nuova edizione) – si racconta la storia di Oronto Douglas (avvocato di Ken Saro-Wiwa e conoscitore del carcere per aver difeso il popolo Ogoni contro gli scempi della Shell nel Delta del Niger), il quale, mentre si trova sulla via di Genova, viene fermato alla frontiera olandese a causa della mancanza delle somme di denaro necessarie per il visto di ingresso. Racconterà così quell’esperienza: «C’è una lezione che ho imparato dal mio fermo alla frontiera olandese: essere poveri è un crimine che può costare la galera». Non c’è immagine migliore dello «stato penale».

Le persone che a luglio arrivano a Genova da ogni parte del mondo imparano, letteralmente sulla loro pelle, qualcosa di ancora peggiore della galera: «la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente». Sono le parole dell’indagine di Amnesty International e non sono distanti da quelle contenute nella prima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sui fatti della Diaz (Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015).
Lo scandalo di quella sospensione della democrazia, tuttavia, non è solo negli scenari militari e di guerra applicati alla gestione della piazza, nella violenza delle forze di polizia, nelle torture alla Diaz e a Bolzaneto; risaltano, anche e soprattutto, le falsificazioni e i depistaggi che le agenzie di polizia e i loro vertici hanno realizzato: a monte, per giustificare arresti illegali di massa (basti pensare alle famose molotov fatte apparire come il frutto della perquisizione e in realtà introdotte dagli stessi dirigenti di polizia); a valle, per ottenere l’impunità nei processi sui maltrattamenti e le torture (coperture, mancati riconoscimenti, false testimonianze).

A fronte di questo scenario, inutile nascondersi, si sono delineate due magistrature.
Una più restìa a mettere in discussione l’idea che le polizie, soprattutto in un Paese democratico, siano assistite sempre e comunque da una sorta di presunzione assoluta di legittimità del loro operato. È questa l’ottica di fondo sottesa alla richiesta – sulla base di verbali che si dimostreranno falsi – delle convalide degli arresti e di misure cautelari nei confronti di 78 persone arrestate alla Diaz e all’impegno di tutte le risorse nel processo per devastazione e saccheggio a carico di 25 manifestanti responsabili degli episodi di danneggiamento più eclatanti.

Vi sono stati invece, su un altro versante, giudici che da subito hanno coltivato il dubbio e che non hanno esitato a rifiutare la convalida di ben 66 arresti su 78, restituendo gli atti alla Procura per indagare sui reati di polizia. Pubblici ministeri, poi, che hanno preso sul serio quelle denunce e hanno cominciato a indagare a tutto tondo sulle forze di polizia, scavando a mani nude nelle prove false, facendosi spazio passo dopo passo in una realtà fatta di omertà, silenzi, distorsioni della verità, ostilità dei vertici di polizia e spesso anche degli uffici giudiziari, mancate collaborazioni. È il lavoro di questi magistrati che rende almeno un po’ meno urticante il senso di ingiustizia dovuto alle mancate risposte della politica e della polizia stessa.
Quella magistratura, sia pure a fatica, ha potuto operare forte dello statuto di indipendenza di un pubblico ministero integrato nella giurisdizione e di un giudice soggetto soltanto alla legge. A questo dobbiamo pensare quando – a distanza di vent’anni e con davanti agli occhi i fatti di Santa Maria Capua Vetere –, come giudici e giuristi, ci interroghiamo oggi sullo scandalo di Genova.