Un altro giorno, un altro whistleblower determinato a gettare una luce su come Facebook abbia messo al primo posto i guadagni e la crescita rispetto alla lotta alla disinformazione e all’odio che pullulano sulla piattaforma, con effetti concreti sul mondo offline. Fra questi la violenza nei confronti dei rohingya in Birmania, pilotata anche sul social dalla giunta militare: cosa di cui i vertici di Facebook avevano le prove ma che non hanno combattuto a sufficienza. «Io, lavorando per Facebook, sono stato l’ingranaggio di un genocidio» – ha detto il whistleblower al Washington Post che ha potuto intervistarlo a patto di proteggere il suo anonimato.
L’anonima “talpa”, che lavorava per l’Integrity team di Facebook, ha consegnato alla Security and Exchanges Commission una dichiarazione giurata in cui elenca le sue accuse nei confronti della compagnia di Mark Zuckerberg – accuse non dissimili da quelle enumerate da Frances Haugen al Congresso Usa e che lunedì la whistleblower porterà all’attenzione del parlamento del Regno unito, ma che aiutano a comporre un quadro sempre più chiaro dell’atteggiamento della piattaforma nei confronti dei contenuti «problematici».

COME ad esempio l’affermazione del suo responsabile della comunicazione Tucker Bounds nei giorni in cui Facebook era nell’occhio del ciclone per lo scandalo dell’interferenza russa nelle elezioni Usa del 2016: «Sarà un fuoco di paglia – avrebbe detto Bounds secondo il whistleblower –, qualche deputato si arrabbierà, e poi nel giro di un paio di settimane si interesserà a qualcos’altro. Ma intanto noi stampiamo soldi nel seminterrato. Va tutto bene». Negli anni della presidenza Trump invece disinformazione, hate speech e teorie del complotto assortite sarebbero state trattate con indulgenza dai vertici della piattaforma per timore di far infuriare il presidente e i suoi alleati, oltre che per non minare la crescita degli utenti. Si parla anche dell’esistenza di una whitelist – in opposizione alla blacklist resa pubblica da un recente leak pubblicato da The Intercept, e che prendeva di mira principalmente musulmani, latini, neri – che esonerava il sito di estrema destra di Bannon, Breitbart News, e altri editori selezionati, dalle norme della piattaforma contro la diffusione di notizie false. «Vuoi cominciare una guerra con Steve Bannon?», avrebbe chiesto il direttore del Public policy team Joe Kaplan a un dipendente che aveva messo in discussione questa indulgenza nei confronti di alcune figure e organizzazioni.

L’ESISTENZA della whitelist sembrerebbe confermata dalle parallele indagini, pubblicate venerdì, di New York Times e Washington Post sui documenti interni di Facebook divulgati da Haugen. Che proverebbero che la pratica del cross check – l’esame più approfondito condotto sugli account di politici e altre figure pubbliche con un vasto seguito – si sia tramutata in una «lista bianca» che di fatto «esonerava chi detiene il potere dal rispetto delle policy dell’azienda».
Le due indagini si concentrano principalmente sul ruolo di Facebook durante le elezioni del 2020 e la crescita esponenziale della teoria che fossero state «rubate» dai democratici, e mettono in evidenza la sottovalutazione dell’onda complottista e violenta che ha portato ai riot al Campidoglio del 6 gennaio.

SECONDO LA NOTA di un data scientist della compagnia, ad appena 7 giorni dalle elezioni il 10% delle visualizzazioni di contenuti politici negli Usa riguardava post in cui si sosteneva la frode elettorale. Ma dopo che le elezioni si sono svolte senza intoppi , Facebook ha allentato ogni forma di controllo e ha perfino smantellato l’Integrity team istituito proprio per sorvegliare sull’uso corretto della piattaforma. Alla dirigenza non piaceva: era diventato troppo critico nei confronti della piattaforma.