Editoriale

L’istantanea che spiega la disfatta

Un ponte descritto con orgoglio, come una vera e propria opera d’arte, come il simbolo di un paese in marcia verso il progresso. Ma è sufficiente abbassare lo sguardo su […]

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 18 agosto 2018

Un ponte descritto con orgoglio, come una vera e propria opera d’arte, come il simbolo di un paese in marcia verso il progresso. Ma è sufficiente abbassare lo sguardo su quelle povere palazzine di edilizia popolare, costruite prima dell’avveniristico gioiello, per capire all’istante che, senza curarsene affatto, il ponte aveva già le sue vittime da violentare e imprigionare.
Le finestre guardano il muro del pilone, aprirle non serve per respirare, soffocate come sono dal cemento che in alcuni punti è letteralmente poggiato sul cornicione. Quando le telecamere di Skytg24 lo inquadrano in primo piano si vede chiaramente il cornicione del palazzo tagliato per ospitare l’immenso lastrone.

Più efficace dei fiumi di inchiostro, basta l’impietosa fotografia per capire chi sta sopra e chi sta sotto, chi sceglie e decide e chi è obbligato a piegare la testa. Rapporti di forza nudi e crudi. Gli inquilini di quelle case, lavoratori con il mutuo da pagare, sono cittadini di serie B, e da oggi fanno parte del grande popolo degli sfollati.
Naturalmente la politica dovrebbe agire e giustificare se stessa nel cambiare lo stato delle cose e in particolare dovrebbe farlo la sinistra. Come ricordava ieri sul manifesto l’ex sindaco di Genova, Doria, negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si discuteva di «modello di sviluppo», sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo.

Un passato morto e sepolto perché poi, in tappe successive e coerenti (“patto tra produttori”, “svolta dell’Eur”), si cambiava rotta per scivolare sul piano inclinato degli anni ’80 quando i modernizzatori, neofiti del modello blairiano davano inizio alla fine dell’economia politica e di una lunga storia politica e sociale. Fino agli anni recenti, ridotti alla svalutazione progressiva e senza fine del lavoro con il jobs act sul trono della disfatta, preludio del tentativo successivo di cambiare i connotati alla Costituzione e al parlamento.
Con quale voce in capitolo questa politica può presentarsi ai cittadini, di quale futuro può farsi avanguardia e interprete quando insieme a quel ponte è crollato un modello marcio di crescita senza sviluppo.

Certo il populismo penale fa impressione, l’analfabetismo istituzionale è compagno di strada di scorciatoie giustizialiste che fanno audience, ma non si combattono con i pannicelli caldi del politicamente corretto, perché non servono ad allontanare la verità di un fallimento storico. Della sinistra e di un intera classe dirigente capace di divorare il paese facendosi docile strumento della corruzione e dell’incuria. Una classe dirigente complice del disastro nel migliore dei casi, agente primario dello sfascio morale e delle malversazioni nel peggiore. E quando per costruire il futuro si deve distruggere gran parte del passato, onestamente la sinistra ha qualche difficoltà ad opporsi alle ruspe.

Non si può certo dar torto a quei familiari che hanno deciso di celebrare in forma privata i funerali dei loro parenti uccisi dal ponte di Genova. La cattiva coscienza del paese si nutre di troppe stragi impunite. Sapere chi è stato, di chi è la responsabilità del loro doloroso lutto non riporterà in vita nessuno, però farebbe giustizia di un crimine così grave, sarebbe almeno una forma di risarcimento morale. Ma tornare a credere che nel nostro paese queste vittime avranno giustizia purtroppo è un atto di fede.

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