L’ultima pubblicazione di Bifo, Ultimi bagliori del Moderno. Lavoro, tecnica e movimento nel laboratorio di Potere Operaio, (ombre corte, pp. 246, euro 20) è la riedizione, 25 anni dopo, del libro dedicato a Potere Operaio. Una riedizione che provoca una sorta di «effetto Pierre Menard»: come il critico letterario inventato da Borges che riscrive parola per parola parti del Don Chisciotte, Bifo ripubblica (al netto di due variazioni) un libro che la distanza cronologica rende molto diverso, pur essendo identiche le parole di cui è composto.

IL LIBRO PARTECIPAVA a un dibattito molto vivace sull’ampiezza della trasformazione sociale e antropologica causata dalla progressiva affermazione dei processi informatici nella produzione e circolazione delle merci e della comunicazione; e alle soglie di un ciclo espansivo di lotte che si distese da Seattle e Genova fino all’elezione di Trump. Il titolo era tratto da un articolo di Giorgio Bocca, che nel marzo 1979 definì «nefasta utopia» quella che non era né nefasta, né un’utopia: una definizione che pochi giorni dopo l’impianto accusatorio del bliz contro quella parte dell’Autonomia erede di Po avrebbe risemantizzato come dottrina criminale. Lo stesso Bocca avrebbe poi assunto posizioni garantiste, fondandole sull’affermazione che Po era un «gruppuscolo effimero e pasticcione», e i suoi dirigenti «professori grafomani, attivisti e casinisti».

Ed è in realtà contro questo peloso innocentismo che Bifo polemizzava, mostrando come, pur nelle sue contraddizioni, Po agì da catalizzatore di una fitta trama di esperienze filosofiche, politiche, esistenziali. Nell’introdurre il testo, Bifo scriveva che questo non è un libro di storia, e auspicava che qualcuno si facesse carico di una ricerca storica. Perché nel 1998 il lettore che avesse voluto ricostruire il lungo Sessantotto italiano aveva ben poco a disposizione: L’orda d’oro di Moroni e Balestrini, e la silloge Settantasette. La rivoluzione che viene.

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ORA IL PANORAMA è del tutto diverso: sono oggi a disposizione ricostruzioni storiche, saggi, biografie, raccolte di documenti non solo di/su Po, ma sull’intera area della sovversione cui Po partecipava (con un deprecabile codazzo di gatekeapeer e autoproclamati custodi della memoria). Sullo sfondo di questi materiali vivi, il libro di Bifo può oggi essere considerato una ricostruzione storica che, afferrando uno dei possibili fili interpretativi, ricostruisce la genesi creativa di un sapere politico a partire da alcuni «enzimi utili per lavorare chimicamente il corpo sociale, disgregandolo e ricomponendolo, e reinventandolo». Una storia che si dipana dal background filosofico degli anni Sessanta, attraverso il 77, fino alle soglie del terzo millennio.

Quel che muove la scrittura di Bifo è la comprensione del processo storico come «intersecarsi, sovrapporsi, districarsi, comporsi, separarsi di flussi», senza «soggetti centrali portatori di volontà univoche»: la storia non ha un télos. Un metodo «composizionista» che nel 1998 funzionava, al netto della forse troppo insistita polemica contro l’opzione organizzativa «leninista» che contraddiceva le intuizioni illuminanti e l’anticipata comprensione della dottrina neoliberale come dottrina dell’impresa alla base dell’intero ciclo della produzione sociale.

BIFO SI CHIEDEVA nel 1998, e ne faceva oggetto di una conclusione aperta, cosa di questa storia fluida potesse servire non per rifondare, ma per «scoprire quali sono le possibilità di liberazione che si aprono». Queste «Varie conclusioni», nella riedizione del 2023, non ci sono. C’è una nuova introduzione che dalla sconfitta del proletariato cognitivo globale trae la conclusione che «il moderno si è concluso senza liberare la potenza produttiva dell’intelletto generale dalla forma distruttiva dell’astrazione capitalistica». Siamo entrati, secondo questo Bifo, nell’epoca della guerra civile globale, «senza universalismo e senza speranza»; come nel romanzo di Conrad, l’umanità entra nel cuore di tenebra della fine della storia: una notte nella quale tutte le lotte appaiono nere, dunque impercepibili.

Ma in questo modo non si reintroduce quel teleologismo che operaismo, composizionismo e post-strutturalismo avevano scacciato? La storia non diventa un percorso nel quale, alla fine, si realizza un disegno conclusivo? Starà dunque al lettore militante applicare a Bifo il metodo composizionista, far proprie le intuizioni che possono illuminare le tenebre del presente, e giocare, nelle lotte, Bifo contro e oltre lo stesso Bifo.