A Washington proseguono convulse le procedure per l’insediamento del governo Trump. Ieri la commissione del senato incaricato della conferma dei ministri ha sospeso le regole procedurali per concedere il nulla osta a Tom Price e Steven Mnuchin rispettivamente incaricati alla sanità e al Tesoro. Price è un privatizzatore militante che dovrà sovrintendere allo smantellamento della rete sociale dell’Obamacare; Munchin il banchiere Goldman Sachs su cui fa perno il pozzetto economico incaricato di consolidare il controllo di Wall street sulle politiche finanziarie e monetarie. Le rispettive nomine passano ora al vaglio del Senato dove verranno approvate dalla maggioranza repubblicana.

L’IMMIGRAZIONE rimane per ora il fulcro del nuovo autoritarismo spinto dal consigliere presidenziale alt-right Steve Bannon, un banco di prova implementato sul gruppo più indifeso per avanzare l’utile narrazione dell’«orda terrorista che preme sui confini». Ne hanno per ora fatto le spese centinaia di persone come la 75enne Marzieh Moosavizadeh, un nonna con permesso di residenza permanente che al ritorno da una visita a Tehran è stata detenuta ed interrogata per otto ore all’aeroporto di Los Angeles, prima di venire ammessa e come Ali Vayeghan, giunto da Tehran a Los Angeles venerdì, anch’egli con la sua carta verde. Ma il permesso di residenza che di solito garantisce l’entrata stavolta non è servito a niente.
Mentre il fratello Hossein lo aspettava agli arrivi, nella zona controlli gli agenti gli sequestravano il documento e lo interrogavano per ore, imponendogli infine di firmare una «rinuncia» della residenza. Dopo ventiquattro ore senza cibo e sonno  Vayeghan, un armeno iraniano venuto a ricongiungersi con  la moglie e il figlio cittadino americano, è stato imbarcato a forza su un volo per Dubai.

ALL’ESTERNO il fratello si era rivolto a uno dei numerosi avvocati che da venerdì sono negli aeroporti delle principali città americane. I legali della Aclu (American civil liberties union) hanno fatto richiesta di ingiunzione alla corte federale e di Los Angeles, che preso in esame il caso ha ordinato alle autorità di rilasciare il «prigioniero».  In tutta questa storia l’aspetto più inquietante è stata la reazione del servizio immigrazione Cbp (Customs and border protection).

LA PROCEDURA prevede la notifica materiale della sentenza della corte con la consegna fisica del documento. Ma quando gli avvocati hanno tentato di recapitarla al comando dello scalo, gli agenti si sono semplicemente rifiutati di riceverli. Tutto questo mentre la Casa bianca tuonava contro i «contestatori illusi» e la «stampa sleale». Intanto l’odissea di Vayeghan, ex-residente americano era terminata al punto di partenza a Tehran.

Non è un caso che lui e Moosavizadeh siano entrambi iraniani dato che  attorno a Los Angeles risiede la più nutrita popolazione iraniana fuori dal paese d’origine.
Il che sottolinea la completa arbitrarietà dell’interdizione trumpista. Non c’è infatti nel calderone californiano un gruppo etnico più tranquillo, borghese e agiato della diaspora iraniana.

IL GROSSO DELL’OLTRE MILIONE di residenti discendono dall’esodo seguito alla rivoluzione khomeinista del 1979, composta in gran parte da persone legate al regime filoamericano dei Reza Phalavi. A questa migrazione sono seguite successive ondate. Attualmente si concentrano a Beverly Hills e nei sobborghi benestanti della San Fernando Valley, Orange Country e San Diego.

FRA QUESTA POPOLAZIONE che comprende tra l’altro moltissimi ebrei (un quarto del totale) e armeni iraniani, l’improvviso provvedimento «anti terrorista» ha seminato lo scompiglio. Su Westwood boulevard, il centro storico di Tehrangeles, in apparenza tutto sembra normale: famiglie a passeggio, uomini che prendono il caffè o un gelato da Rosa e Zafferano. In vetrina tappeti, oggetti persiani e libri di Rumi.

MA NON TUTTO È NORMALE. La Att Vacation, agenzia di viaggio, è deserta a parte il titolare seduto solo alla propria scrivani. «Venga, venga pure» fa cenno  Farhad Besharati, il signore cortese che gestisce l’agenzia da oltre vent’anni. «I miei clienti sono persone di una certa età. Alcuni non hanno mai imparato bene l’inglese pur vivendo qui da decenni. E comunque sono persone che non hanno tanta dimestichezza con internet, vogliono ancora qualcuno che gli dia un biglietto di carta». Besharati ha costruito la su impresa a servizio degli emigrati che fanno spola regolare fra amici e parenti rimasti in Iran.

Ma da qualche giorno è il panico. «Non faccio che rispondere al telefono. Una valanga di disdette, gente che rivuole i soldi. Non si fidano più a partire perché non sanno se potranno tornare. Mi fanno  un sacco di domande  cui non so rispondere. Trump mi ha rovinato».

L’arbitrarietà dell’inserimento di questa comunità nella lista nera di Trump è palese.  Ma quello che impressiona davvero è l’ostruzionismo del Cpb. Bisogna risalire all’insubordinazione degli amministratori segregazionisti in Arkansas e Mississippi all’epoca di Eisenhower e Kennedy. Oggi invece una prima agenzia si allinea con l’esecutivo contro la magistratura. Si delineano così gli inquietanti contorni di una crisi costituzionale. Una sindrome «cilena» che evoca i meccanismi familiari delle instaurazioni autoritarie.