Ormai, di fatto, è un’ex parlamentare. Liz Cheney è l’ottava a capitolare e a uscire di scena dei dieci membri repubblicani della camera che si schierarono a favore del secondo procedimento di impeachment a carico di Donald Trump, lo scorso anno.

Diventando bersaglio di una rabbiosa, feroce, ininterrotta campagna di denigrazione da parte del biondo miliardario di Mar-a-Lago e dei suoi mazzieri. La figlia prediletta di Dick Cheney, l’anima nera delle amministrazioni Bush, padre e figlio, è dei dieci il personaggio più detestato da Donald Trump, con l’aggravante di essere diventata la protagonista intransigente del comitato parlamentare che indaga sul suo tentativo di golpe, il 6 gennaio 2020.

NEL WYOMING Liz Cheney è stata sonoramente sconfitta da Harriet Hageman nelle primarie repubblicane dello stato, con la conseguenza che il prossimo novembre non sarà candidata per la rielezione. Il voto nel Cowboy State è così diventato molto di più che un duello tra due rappresentanti della destra. E stata la resa dei conti tra quel che resta del partito di Reagan e dei Bush e il partito personale di Donald Trump per il controllo di quello che un tempo era il Grand Old Party.

È UN PUNTO DI SVOLTA importante per Trump. Perché la sua scommessa – la riconquista della Casa Bianca – si gioca innanzitutto all’interno del suo partito, ancor prima che nel confronto diretto con Joe Biden e con i democratici.

CON LIZ CHENEY e un pugno di parlamentari, esponenti della vecchia guardia di osservanza reaganiana, bushista e neocon, personaggi «moderati» come Mitt Romney e Chris Christie si sono esposti nel prendere le distanze da Trump, puntando evidentemente sulla «via giudiziaria» per toglierlo di mezzo. Diversi altri big hanno pensato di poter guadagnare spazio politico lucrando anche loro sulle disavventure giudiziarie dell’ex-presidente. Formalmente l’hanno sostenuto, hanno criticato l’Fbi per le perquisizioni nella residenza di Mar-a-Lago, ma senza alzare troppo i toni, con frasi di circostanza. «Questa non è una repubblica, forse è una banana republic, se succedono cose così», è il massimo che è riuscito a dichiarare Ron DeSantis, nel frattempo preparando, lui e gli altri aspiranti presidenziali, le munizioni per le prossime primarie in vista del voto del 2024.

L’ESITO DEL DUELLO nel Cowboy State è dunque una doccia fredda per i vecchi repubblicani ma anche per Ron DeSantis, Mike Pence, Mike Pompeo, Ted Cruz, Nikki Haley, i probabili sfidanti di Trump nella corsa verso le presidenziali del 2024. Con la sconfitta di Cheney, Trump consolida il suo potere nel Partito repubblicano e tiene sotto tiro i suoi sfidanti, forte anche di sondaggi che confermano la sua notevole e consolidata popolarità nell’elettorato repubblicano, con distacco considerevole verso il primo dei potenziali avversari, il governatore della Florida DeSantis.

VA DETTO CHE l’orma di Trump è talmente forte e profonda nel Partito repubblicano che, anche dovesse finire male per lui, i suoi sfidanti ne seguirebbero il corso e lo stile, essendo peraltro anche peggiori di lui, in quanto a morale, politica, storia personale, idee, modi di fare, e, sicuramente, molto più pericolosi di lui sul fronte internazionale, dove l’eccentrica visione di Trump, fondamentalmente isolazionista, America First, lascerebbe spazio a follie interventiste che ridarebbero la felicità a Dick Cheney e all’amata Liz e li riconcilierebbero con il loro partito.

LE PERQUISIZIONI dell’Fbi, a cui s’aggiunge la notizia dell’indagine penale in Georgia nei confronti del sodale Rudolph Giuliani per frode elettorale, possono avere ulteriori sviluppi clamorosi, aprire nuove ramificazioni investigative. Possono perfino portare dove due tentativi di impeachment hanno fallito: alla fine del viaggio nella politica del più stravagante e pericoloso pratagonista del nostro tempo.

Intanto, però, la speranza di una soluzione affidata ai giudici lo rende un perseguitato agli occhi dell’elettorato repubblicano, non solo quello più radicale. Come dice il vecchio astuto reazionario Newt Gingrich, «virtualmente chiunque, sul versante repubblicano, dà per scontato che l’Fbi è corrotto, che il comitato 6 gennaio è un comitato finto che s’avvale di fake news, e dunque presume che ci sia un tentativo in corso di martirizzare Trump».

L’OBIETTIVA, INDICIBILE, convergenza d’intenti tra democratici e destra repubblicana, nelle sue diverse anime, vecchia e nuova, per far fuori Trump ha per adesso il solito risultato, quello di dargli nuova forza e di radicalizzare l’elettorato repubblicano, oltre i settori dei suoi più fanatici sostenitori. Se un mese fa il 53 per cento degli elettori repubblicani era disposto a votare Trump in primarie presidenziali che si dovessero tenere oggi, adesso è il 57 per cento. Nello stesso periodo DeSantis ha perso sei punti.

Mentre in un’ipotetica sfida con Joe Biden, Trump è in vantaggio di tre punti. Non male per un personaggio che una parte consistente di americani considera con un piede già nella cella di un penitenziario più che proiettato alla riconquista dello studio ovale della Casa bianca.