«Il noir mediterraneo? Ha due caratteristiche, le città e il cibo». Per Petros Markaris non ci sono dubbi: non sono solo gli ingredienti «sociali» a rendere così particolare quella forma del romanzo poliziesco fiorita negli scorsi decenni sulle sponde del Mediterraneo, ma è a tavola che si può misurare davvero il portato di questa piccola rivoluzione letteraria. «La cucina è una componente importante di tutti i romanzi polizieschi mediterranei: un aspetto quasi sconosciuto a quelli americani, inglesi o svedesi. Sono abbastanza stufo di leggere di detective che passano la vita a mangiare panini e bere birra», taglia corto lo scrittore greco, nato a Istanbul nel 1937, cui si deve la nascita del commissario ateniese Kostas Charitos.

INSIEME A ANDREA CAMILLERI e al suo Salvo Montalbano, a Jean Claude Izzo, creatore della figura del privé marsigliese Fabio Montale, e a Manuel Vázquez Montalbán che con l’investigatore Pepe Carvalho – le cui indagini cominciarono ad essere pubblicate in Spagna già alla fine degli anni Settanta – viene spesso indicato come l’autentico iniziatore del genere, Markaris ha per molti versi contribuito a definire oltre vent’anni fa il canone di un nuovo genere di matrice poliziesca. Seppur con diversi esiti narrativi, e altrettanto differenti riconoscimenti di critica e pubblico, questi scrittori hanno però tutti in comune il fatto di aver utilizzato l’indagine criminale tenendosi lontano sia dall’azione e dalla violenza dell’hard-boiled di ispirazione americana che dal carattere esplicitamente politico del nouveau polar transalpino. In questo caso il crimine e la sua possibile soluzione vanno ricercati con la dovuta calma in mezzo agli odori che riempiono vicoli e strade, dove si esprime il vero volto di una società, mentre ogni indizio va lasciato decantare perché, alla fine, se ne possa apprezzare meglio, e fino in fondo, il valore e l’essenza. È una passione bruciante quella che muove questi eroi riluttanti, sbirri spesso loro malgrado, tra cucine e trattorie, all’inseguimento di quel sapore perduto o di un piatto introvabile, agognato al pari di un’amata dalla quale non ci si riesce mai a separare.
Difficile non pensare ai tristi hamburger di Marlowe, ma in realtà anche alle ben più stimolanti cene domestiche, o nei bistrot, di Maigret, ai pranzi ricercati di Poirot e Nero Wolfe: per il noir mediterraneo, l’arte culinaria non è solo uno strumento per la ricerca della verità, ma una sorta di guida a una vita che meriti davvero di essere vissuta.

Ma se il cibo può essere evocato come un elemento unificante, quasi come una chiave narrativa ricorrente e implicitamente identificativa, non si deve credere che abbia lo stesso valore per tutti.
Per il compianto Andrea Camilleri, scomparso lo scorso 17 luglio – dopo che Montalbán se ne era andato già nel 2003 e Izzo nel 2000 a soli 55 anni -, quello della cucina è una sorta di rito da far celebrare se possibile in solitudine al commissario Montalbano. Nella lunga serie di Vigata il cibo è un protagonista trasversale, pressoché inaggirabile: c’è chi ha contato ben 60 ricette per una ventina di romanzi. I rimandi personali dello scrittore, custoditi nella casa di campagna vicino a Porto Empedocle dove nonna Elvira regnava incontrastata, si traducono per il commissario in una specie di risarcimento per ciò che la vita gli ha tolto: un debito pagato dal passato attraverso le ricette perdute degli arancini, sulla cui speciale preparazione Camilleri è tornato più volte. Anche per questo, quello di Montalbano è un approccio passionale, quasi carnale al cibo: nulla può distoglierlo da ciò che sta mangiando e esige l’assoluto silenzio durante il pasto. Del resto è da solo che degusta i manicaretti che prepara per lui la domestica Adelina o Calogero, il proprietario dell’omonima trattoria.

MALGRADO FIN DAL NOME il commissario creato dallo scrittore siciliano paghi un debito d’affetto a Manuel Vázquez Montalbán, l’investigatore Pepe Carvalho, creato da quest’ultimo, non potrebbe avere un rapporto più diverso con il cibo. Intanto perché, come ricordava con orgoglio lo stesso autore catalano – in questo identico al suo alter ego narrativo – Carvalho non ama solo mangiare, ma è anche un cuoco curioso e colto. Perché se anche per lui vale il sentimento che il cibo evochi la memoria più cara, i legami familiari ma anche i barrios migranti di una Barcellona popolare, almeno in parte andata perduta, in questo caso il piacere si fa anche intellettuale, i piatti innovativi, creativi, raffinati. Anche se c’è chi sottolinea con talvolta lui li renda eccessivamente pesanti. Non a caso Montalbán, autore di più d’un libro dedicato esplicitamente al tema – da Ricette immorali a Contro i gourmet -, aveva definito la cucina come «il luogo migliore per la postmodernità, dove il patrimonio culinario volge all’eclettismo». La Barcellona di Carvalho, anche in questo senso, guarda al mondo.

Allo stesso modo, intorno al Vieux Port di Marsiglia, ai quartieri dove marinai e immigrati si mescolano e si confondono, dove l’identità meticcia della città si respira nell’aria e sale in sinuose nuvole di vapore da ogni portata, conduce le propri indagini Fabio Montale, l’ex poliziotto divenuto investigatore privato attraverso il quale Jean Claude Izzo ha riscritto, anche in senso gastronomico, la storia locale.
Tra piatti che chiamano in causa a ogni occasione le mille radici della città, dove ricette italiane, greche, arabe e ebraiche si intrecciano inestricabilmente, per Montale mangiare è allo stesso tempo un profondo piacere e un atto di resistenza alla minaccia rappresentata, anche da queste parti, dalla crescita del razzismo. In queste pagine l’amore per il cibo guida verso la rivendicazione di un’identità plurale, fatta di frammenti che si completano a vicenda e che per questo non possono fare a meno gli uni degli altri. Un’attitudine che conduce Montale, sulla medesima strada coperta di spezie, a vivere con passione ogni nuovo incontro, consapevole che «magiare significa accogliere».

INFINE, GIUNTI AD ATENE, per Kostas Charitos, ammaliato dalla cucina della moglie Adriana che smussa i contrasti familiari ricorrendo ai piatti della tradizione popolare greca, la «via del cibo» offre prima di tutto la misura della grave crisi economica e sociale che il commissario non smette di affrontare ad ogni nuova indagine. Di romanzo in romanzo, a casa Charitos si fanno i conti con il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici, poliziotti compresi, e con la necessità di indirizzarsi verso alimenti più a buon mercato. Ma, ancor di più, per il vecchio Kostas, come per lo stesso Petros Markaris, è a tavola che si capisce come i greci abbiano smarrito quella «cultura della povertà» che li rendeva in grado di resistere alle avversità.
La cucina dei Charitos diventa così il laboratorio sociale privilegiato per capire davvero cosa stia accadendo nel paese: quell’inarrestabile declino che fa da sfondo alle inchieste del commissario, insieme alla perdita delle speranze dello scrittore, a lungo vicino alla sinistra del Pasok, e oggi sconfortato dal panorama politico. Solo un segnale in controtendenza che mostra come sì, al di là di ogni analisi ragionevole, una qualche resistenza sia ancora possibile nel nome delle proprie radici: le teglie ricolme di pomodori e peperoni ripieni di riso dei ghemistà che Adriana porta in tavola.