L’Italia spinge per un maggiore coinvolgimento delle Nazioni unite nella ricerca di una soluzione di pace in Libia. Il premier Paolo Gentiloni lo dice chiaramente quando, nel pomeriggio, riceve a Palazzo Chigi l’inviato speciale dell’Onu per la Libia Ghassan Salamé. Gentiloni sa bene che la soluzione ai flussi di migranti che arrivano sulle nostre coste passa anche da un accordo di pace nel Paese nordafricano, accordo che – nell’ottica di Roma – finirebbe col rafforzare il premier libico Fayez al Serraj con cui da mesi l’Italia sta trattando. «Autorità libiche più forti renderanno più efficace l’impegno comune contro i trafficanti di esseri umani», spiega.

Da parte sua l’inviato dell’Onu, che ha scelto Roma come prima tappa del suo viaggio diplomatico in Europa, mostra di comprendere le esigenze italiane, che puntano ad evitare l’accavallarsi di possibili mediatori. Salamè non si spinge però fino a offrire il sostegno dell’Onu alla missione italiana in Libia. Cosa che tra l’altro non potrebbe neanche fare sia per non compromettere in maniera definitiva il suo ruolo di mediatore, sia perché quella che si prepara a partire per la Libia è frutto di un accordo bilaterale tra Roma e Tripoli che non necessita di nessun via libera particolare da parte dell’Onu. Ciò che invece serve a Roma è la garanzia che Unhcr e Oim sorveglieranno sulle condizioni di vita nei campi in cui finiranno i migranti una volta fermati in mare e riportati indietro. Una garanzia necessaria anche per provare a smorzare le polemiche che dividono lo stesso governo sull’opportunità di aiutare la Guardia costiera libica nel fermare i barconi carichi di disperati che tentano di raggiungere l’Europa.

Nei prossimi giorni si saprà quante e quali navi verranno messe a disposizione per la nuova missione. Gli esperti del ministero della Difesa che per cinque giorni hanno raccolto le richieste dei colleghi libici stanno mettendo a punto un possibile piano di intervento. Ieri a Tripoli è arrivata la prima nave con a bordo personale specializzato che avrà il compito di istruire i libici su come riparare le motovedette ricevute dal nostro Paese e come allestire nuovi sistema di comunicazione. Subito dopo Ferragosto, salvo imprevisti, toccherà invece alle unità operative, prese in prestito dalla missione Mare sicuro che già incrocia al largo delle acque libiche.

Il punto più delicato resta comunque il trattamento che i libici riservano ai migranti anche nei campi di detenzione gestiti dall’autorità per la lotta all’immigrazione clandestina di Tripoli. Unhcr, Oim e Medici senza frontiere hanno più volte descritto le condizioni disumane nelle quali i migranti sono costretti a vivere. Ieri si sono aggiunte anche le testimonianze raccolte nel tempo dalla clinica mobile di Medici per i diritti umani (Medu). Secondo l’associazione l’85% dei migranti sbarcati in Italia e provenienti dall’Africa subsahariana ha subito in Libia torture e trattamenti inumani e degradanti. In particolare il 79% è stato trattenuto/detenuto in luoghi sovraffollati e in pessime condizioni igienico sanitarie, il 60% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 55% gravi e ripetute percosse e percentuali inferiori ma comunque rilevanti stupri, ustioni, falaka (percosse alle piante dei piedi), torture da sospensione, obbligo di assistere alla tortura o all’uccisione di altri migranti.
«La Libia è un lager dove si consumano nei confronti dei migranti atrocità degne dei peggiori campi di sterminio del XX secolo», ha denunciato l’associazione mettendo in guardia sull’accordo italo-libico che sta «lasciando intrappolate decine di migliaia di migranti subsahariani, e non solo», in violazione dei diritti umani fondamentali.