Negli ultimi giorni tutta una serie di meccanismi sono scattati in Libia, diciamo da dopo l’assalto al quartier generale della National Oil Corporation, la compagnia statale del petrolio, con sede a Tripoli.

LO SCATTO PIÙ RUMOROSO è venuto dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, presa a New York giovedì sera, su proposta della Gran Bretagna, di prorogare di un anno – il voto è stato all’unanimità – la missione Unsmil di stabilizzazione della Libia. Nel testo della risoluzione non è stato fatto alcun accenno al 10 dicembre prossimo come data delle elezioni. Al contrario, il Consiglio di sicurezza auspica che le elezioni libiche avvengano «il prima possibile purché siano presenti le necessarie condizioni di sicurezza, tecniche, legislative e politiche».

Ha vinto dunque la linea della diplomazia italiana, con gli Stati Uniti che hanno fatto la loro parte al Palazzo di Vetro sulla base, evidentemente, degli accordi strappati dal premier Conte nella sua visita al presidente Trump per concordare una sorta di «camera di regia» comune sulla Libia a fine luglio. La data del 10 dicembre a dire il vero nero su bianco non era stata mai scritta in nessun documento ufficiale, ma si trattava di un impegno verbale preso a maggio a Parigi dal premier libico riconosciuto internazionalmente Serraj e dal generale «ribelle» Haftar. Tanto che ancora ieri la portavoce del ministro degli Esteri francese Le Drian, Agnes von del Muhll, ripeteva che Parigi continua a sostenere «gli sforzi delle autorità libiche e delle Nazioni Unite per arrivare a elezioni entro l’anno».

IL PRIMO MINISTRO Fayez Serraj pochi giorni fa in una intervista al Corriere della Sera aveva però chiarito come non ci fossero le condizioni per andare al voto in tempi così stretti. E non solo a causa della mancanza di sicurezza nelle strade di Tripoli, dove in una settimana di combattimenti tra le milizie ci sono stati una sessantina di morti, ma anche – insisteva Serraj – perché per andare alle urne bisogna che tutte le parti in gioco siano disposte ad accettare i risultati e quindi avere regole condivise. «Come si fa ad andare a votare senza una Costituzione?», era la sua domanda retorica.

In verità proprio l’altro ieri la Camera dei rappresentanti di Tobruk, cioè l’unico parlamento eletto ma che finora ha fatto capo alle forze del generale Haftar, ha approvato la legge per effettuare il referendum costituzionale su tre circoscrizioni (est, ovest e sud) e lunedì prossimo è convocata una nuova seduta per emendare la Dichiarazione costituzionale che invece prevedeva un’unica circoscrizione nazionale. Si tratta di un primo sblocco dopo mesi, anni, di melina istituzionale, anche se un gruppo di deputati di Brega, in Cirenaica, sostengono si sia trattato di un blitz parlamentare di deputati della Tripolitania da rimettere in discussione. Così com’è in bozza adesso la Costituzione non prevede che il generale Haftar possa candidarsi come presidente.

DECISIONI IMPORTANTI a Tripoli sono state prese sempre nella giornata di giovedì e sempre con il coinvolgimento della numero due della missione Unsmil, Stephanie Williams. In un summit tecnico durato alcune ore è stato messo a punto un piano di riordino degli incarichi e della suddivisione delle aree di controllo delle milizie che fanno capo al governo Serraj in modo da rendere effettivo il cessate il fuoco concordato dall’Onu ma finora non attuato: i miliziani delle varie «bande» dovranno consegnare le armi in un deposito unico che saranno ripartite a seconda delle aree di competenza e degli incarichi. Serraj insieme al direttore della Banca centrale hanno poi fissato regole sui prezzi dei carburanti e sui tassi di cambio e il dinaro libico si è subito rivalutato.

HAFTAR PER ORA ha ottenuto che l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, da lui considerato «persona non gradita», per ora in ferie prolungate per «mancanza di sicurezza a Tripoli», sarà sostituito. Ancora non si sa da chi.