Un debito di 1350 milioni di euro, di cui 300 solo con i fornitori. 11.590 dipendenti, con un tasso di assenza nel primo trimestre di quest’anno del 12,1%, il 9,2% in più rispetto al 2016. Circa 4 milioni di utenti al giorno. Età media del parco bus di circa 15 anni, quella dei tram di 34 anni e spicci (contro gli 11,4 anni di Londra e 6,9 anni di Parigi). Ultimo rinnovo parziale del parco autobus: Giubileo 2000. Tempo di attesa medio per un bus pari a 79 minuti. Sono numeri importanti, quelli della Ragioneria dello Stato che descrivono lo stato dell’arte della municipalizzata dei trasporti di Roma. Che, ora lo sappiamo, è quasi un crac. Ma quando è cominciato il declino? E perché?

Il bubbone Atac si gonfia tra il 2008 e il 2009. Basta leggere i dati della relazione dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale, analizzati anche in un dossier dell’associazione Radicali italiani, impegnata nelle ultime due settimane di raccolta firme per promuovere un referendum sulla liberalizzazione del servizio pubblico di trasporto romano. Nell’anno 2008 l’Atac chiudeva il bilancio con una perdita di 82 milioni di euro, nel 2009 si passa a 91 milioni; il debito sale da 871 a 1.470 milioni. Da allora si mantiene sempre al di sopra di 1,5 miliardi, con impennate contenute solo negli ultimi anni.

I malfidati potrebbero pensare che sia tutta e solo colpa di Gianni Alemanno, il sindaco di estrema destra che peraltro in quei mesi ottenne dal governo amico di Silvio Berlusconi una salvifica mano a nascondere sotto il tappeto di una «bad company» il debito della Capitale. Ma non è così. Non tutto almeno si può addossare alla sua responsabilità. Lo spiega bene Pietro Spirito, l’ex Direttore centrale Operazioni di Atac che l’anno scorso ha dato alle stampe il saggio «Trasportopoli, cronache dall’inferno Atac» (Ed. Guerini e Associati).

«È il risultato di una fusione fatta male, che invece di risolvere i problemi delle aziende di trasporto che allora c’erano a Roma, ha assommato le inefficienze di tutti. A questo si è aggiunta una politica dissennata di assunzioni clientelari», spiega Spirito. Fu infatti il consiglio comunale precedente (giunta Veltroni) a decidere all’unanimità di unificare le tre aziende municipalizzate di trasporti: Atac, Trambus e Metro. Con un risultato certo: la moltiplicazione del personale amministrativo. I tre “plotoni” diventarono quattro, perché ai tre “corpi” si aggiunsero mille dipendenti amministrativi assunti nell’era «parentopoli». E infatti i costi per il personale lievitano tra il 2008 e il 2009, passando da 71 milioni l’anno a oltre 576 mln. Che è più della somma delle spese delle singole aziende.

La racconta così in un recente articolo sul Corriere della Sera anche Walter Tocci, ex assessore alla Mobilità della giunta Rutelli, convinto sostenitore del referendum radicale «Mobilitiamo Roma» che, con le 21 mila firme raccolte (ne occorrono 29 mila entro il 12 agosto) propone di «affidare il servizio di tpl attraverso una gara europea alla quale potrebbero ovviamente partecipare soggetti pubblici o privati». «Per questo – spiega Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani – non si tratta di un referendum per la privatizzazione, ma per la liberalizzazione del servizio, che permetterebbe tra l’altro di separare i controllori dai controllati».

Spiega Tocci che «la separazione tra regolazione e produzione alla fine degli anni ’90 furono destinate ad Atac spa e Trambus. Per bloccare la liberalizzazione fu successivamente ricostruita un’azienda unica, la quale tornò presto a essere un grande calderone utilizzato poi da Alemanno per gli sprechi di Parentopoli. Il sindaco Marino ha conservato il monopolio e la sindaca Raggi lo ha sigillato, smentendo la promessa discontinuità». Entro il 2019, però, spiega ancora il senatore Pd, le leggi impongono nuove gare e in alcuni casi già nel 2018 vanno in scadenza contratti di gestione della rete periferica stipulati con privati. Un disastro, insomma, come ha rivelato il direttore generale Bruno Rota.

«Di sicuro – è la conclusione di Tocci, condivisibile o meno che sia – sono molte le lobbies che puntano a creare una grave emergenza per giustificare la svendita delle azioni dell’Atac. In questo scenario non ci sarebbe più tempo per la liberalizzazione, e l’unica soluzione disponibile sarebbe una privatizzazione disperata, come in passato è accaduto spesso in Italia (si veda il caso dell’Iri)».