Ain al Remmaneh. Un nome legato al primo massacro della guerra civile libanese. Il 13 aprile 1975 un autobus che attraversava Ain al Remmaneh, roccaforte della destra cristiana maronita alla periferia di Beirut, fu bersagliato con fitti mitragliamenti. A bordo 27 profughi palestinesi. Morirono tutti: uomini e donne. Crivellati di colpi. Poche ore prima quattro cristiani erano stati uccisi fuori da una chiesa. Poi il 18 gennaio del 1976 ci fu il massacro di Karantina (almeno mille i morti), una baraccopoli musulmana abitata da curdi, siriani e palestinesi, compiuto da cristiani falangisti. Due giorni dopo a Damour dozzine di cristiani furono uccisi per vendetta da libanesi musulmani e da palestinesi. Storie lontane, ma che in Libano nessuno dimentica, di una guerra civile che in 15 anni ha ucciso decine di migliaia di persone, in gran parte civili. Per questo sono tremati i polsi a tanti quando ieri si è saputo che cecchini avevano aperto il fuoco proprio da edifici di Ain al Remmaneh sulla manifestazione organizzata dai partiti sciiti Hezbollah e Amal alla vicina rotonda di Tayyoune, nei pressi del Palazzo di Giustizia.

La crisi libanese ieri ha preso un’altra direzione, lontana dalle proteste popolari e pacifiche contro l’intera classe politica, il malgoverno, la corruzione, il carovita, la mancanza di elettricità e carburante e tanti altri problemi che rendono un inferno la vita di gran parte dei cittadini. A questo punto è poco importante quanto abbiano ragione o torto Hezbollah e Amal nel mettere in dubbio l’imparzialità del giudice Tarek Bitar che indaga sull’esplosione del 4 agosto del 2020 al porto di Beirut (oltre 200 morti). Qualcuno ha deciso, armi in pugno, di andare alla rottura violenta con le forze sostenute dall’Iran e dalla Siria e accusate, dagli avversari, di impedire al Libano di unirsi allo schieramento arabo filo-Usa. Proprio ieri è arrivata a Beirut Victoria Nuland, sottosegretario di Stato Usa, per annunciare che gli Stati Uniti invieranno un ulteriore aiuto di 67 milioni di dollari all’esercito libanese. L’obiettivo di Washington è rafforzare le forze armate del paese dei cedri per renderlo capace di reggere un futuro scontro militare con Hezbollah. Il movimento sciita da tempo accusa l’ambasciata Usa a Beirut di dare ordini alle Forze libanesi, partito di destra, responsabile a suo dire degli spari ieri sulla manifestazione. Il suo leader, Samir Geagea (imprigionato fino al 2005 per crimini di guerra), nega le accuse ma la tensione tra le parti avverse resta alta.

Pur non tenendo conto delle accuse di Hezbollah, è arduo escludere un collegamento tra i tiri dei cecchini sulla manifestazione sciita e il forte irrigidimento della posizione statunitense verso Iran, Siria e Hezbollah avvenuto in queste settimane. Posizione che, forse, i tiratori scelti hanno interpretato come un via libera. «Il tempo stringe» ha detto due giorni fa il segretario di Stato Antony Blinken riguardo il rilancio dell’accordo (Jcpoa) sul programma nucleare di Teheran al termine di un incontro a Washington con il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid e il capo della diplomazia degli Emirati Abdullah Bin Zayed Al Nahyan. «Siamo pronti ad altre opzioni se l’Iran non cambia rotta», ha affermato Blinken «ci stiamo avvicinando al punto in cui il ritorno al Jcpoa non avrà più i benefici del Jcpoa». L’opzione è la guerra.

L’Amministrazione Usa a meno di un anno dalla vittoria di Joe Biden su Donald Trump, ha già esaurito la volontà dichiarata di privilegiare la diplomazia sull’uso della forza. Ed è ormai schierata sulle posizioni di Israele nei confronti dell’Iran e dei suoi alleati. Lapid due giorni fa ha ripetuto che lo Stato ebraico «si riserva il diritto di agire in qualsiasi momento e in qualsiasi modo» contro l’Iran. «Sono sul tavolo altre opzioni se la diplomazia dovesse fallire» ha avvertito «non è solo un nostro diritto è anche una nostra responsabilità».