Anne studia, va alle feste, ha qualcuno che potrebbe diventare un fidanzato, con le amiche parla di Sartre nel modo in cui se ne parla al liceo: tutto abbastanza normale, soprattutto se si pensa che la storia è ambientata nella provincia francese del 1963. Eppure, fin dall’inizio, è impossibile non notare qualcosa di strano, proprio a partire dagli elementi fondamentali dell’immagine. Il quadro è stretto, troppo anche per gli standard di allora, e i frequenti primi piani della protagonista sono realizzati in modo da tenere sfocato tutto quello che le sta intorno. La concentrazione su di lei è assoluta, Anamaria Vartolomei che la interpreta tiene lo sguardo con disinvoltura esemplare: è difficile rimanere indifferenti. La tensione si insinua tra i silenzi, con poche battute vengono delineati i rapporti che la legano alle amiche: a un ragazzo che in discoteca commenta con un «ti adorano» le ragazze che la circondano risponde tranquilla «mi spiano, sono convinte che sia una troia».

IL SESSO, misterioso e minaccioso, è alluso di continuo. Difficile non pensarci a diciotto anni, impossibile non associarlo al rischio di rimanere incinta in un’epoca in cui i contraccettivi moderni – la pillola era stata importata in Europa solo da due anni – erano poco conosciuti e l’aborto – in Francia verrà legalizzato solo nel 1976 – era un crimine che prevedeva il carcere per la donna e tutti coloro che la aiutavano.

QUANDO finalmente Anne, dopo l’ennesimo controllo delle mutande alla ricerca di un inizio di mestruo, confida il suo stato, la reazione delle amiche è allarmata: nessuno la vuole aiutare, tutte hanno paura. Delle denunce e forse di se stesse. Il fidanzato rimarca la differenza di classe e si smarca ben poco elegantemente, mentre il suo medico (Fabrizio Rongione) è più ragionevole, spiega i rischi cui vanno in contro i dottori che praticano l’interruzione di gravidanza e non manca di illustrare una sorta di zona grigia dove medici pietosi diagnosticano aborti spontanei alle donne che si presentano in pronto soccorso dopo interventi maldestri o mal curati. Scandito dallo scorrere delle settimane, il quadro si fa sempre più chiaro: la situazione è grave, ma una via per risolverla esiste, stretta e molto pericolosa per la donna. Tratto dall’omonimo romanzo di Annie Ernaux (in Italia, L’evento, edito da L’orma), il film fa a meno della voce della grande scrittrice francese e vince la scommessa di rendere in termini strettamente filmici la sua secchezza narrativa: i gesti e il volto di Anne, ripresi con esemplare economia espressiva, trascendono la realtà fisica e proiettano gli spettatori all’interno del suo lucido dolore. Nessun ricatto, però.

ANNE non è una vittima disarmata che suscita pietà, ma una donna che si sottrae al suo destino e afferma il diritto a vivere la sua vita. Al professore che le chiede che malattia ha avuto risponde «quella che costringe le donne a passare il resto della vita dietro i fornelli». Celebrando lo specifico femminismo di Ernaux, rispettandone le coordinate storiche e l’ascendenza intellettuale più che politica, la regista Audrey Diwan, al suo secondo film dopo Mais vous etes fou del 2019, riesce a parlare al presente con grande efficacia. È impossibile rifugiarsi nella consolazione che la situazione è cambiata e la panoramica verso il basso nel momento dell’espulsione del feto consegna agli spettatori un’immagine che rende con violenta semplicità l’irriducibilità corporea del conflitto, la sua persistente radicalità. Un grande film.