Quasi sei anni dopo è cambiato poco o niente. Certo, sono più piccole le dimensioni del campo nel quale si trovano i migranti e, di conseguenza, il numero dei disperati che vi sono richiusi oggi è molto inferiore rispetto ad aprile 2016, quando papa Francesco arrivò per la prima volta a Lesbo.

Ma le differenze rischiano davvero di finire qui. Quella nella quale atterra oggi il pontefice è un’isola in cui da troppo tempo alcuni diritti che fino a qualche anno fa sembravano intoccabili in Europa – come la libertà di movimento – sono invece sospesi, accantonati insieme alla solidarietà per i più deboli. Un’isola che, suo malgrado, ha accettato di farsi «scudo» per fermare uomini, donne e bambini in fuga da guerra e miseria.

La definizione – infelice – di Grecia come «scudo d’Europa» necessario a fermare i migranti la coniò la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a marzo del 2020, quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan minacciava di aprire la frontiere turche permettendo così a decine di migliaia di profughi di attraversare l’Egeo.

Oggi la minaccia è rientrata e la Turchia è l’unica cosa che i migranti riescono a vedere dalle loro tende nel campo di Kara Tepe, la struttura realizzata con i soldi dell’Unione europea dopo che nel settembre dell’anno scorso un incendio ha completamente distrutto il campo di Moria, il più grande d’Europa con oltre 10 mila persone ammassate al suo interno. Attualmente a Kara Tepe ci sono invece 2.200 persone tra migranti e rifugiati, il 72% di origine afghana e un terzo rappresentato da bambini, ma le condizioni in cui sono costrette a vivere restano uguali a quelle, vergognose, del passato.

«Le persone sono esposte a venti gelidi e a ogni tipo di condizione atmosferica perché il campo sorge a ridosso del mare. I bagni chimici sono in cattive condizioni, mentre le poche docce disponibili non hanno l’acqua calda», ha denunciato pochi giorni fa Medici senza frontiere, proprio in vista della visita di oggi di papa Francesco.

Come se non bastasse il campo è di fatto una prigione. Circondato da recinzioni e sorvegliato a vista da numerosi poliziotti che ne controllano il perimetro e gli accessi vietando l’ingresso ai giornalisti. A parte tre ore per due volte a settimana, ai migranti è proibito uscire se non per emergenze sanitarie o altri motivi medici. «Le politiche di contenimento mettono a rischio la salute delle persone costringendole a vivere in una condizione paragonabile a una prigionia, con conseguenze devastanti», spiega Augusto Cezar Meneguim, responsabile medico di Msf a Lesbo.

Mentre secondo un’altra ong, Intersos, nel campo si trovano donne sopravvissute a violenze domestiche, abusi sessuali, matrimoni precoci subiti nei paesi di origine o durante il viaggio verso l’Europa. Abusi che, spiega sempre l’ong, sarebbero avvenuti anche nel campo di Lesbo.

In una situazione simile, dove l’assistenza è lasciata di fatto alle sole organizzazioni umanitarie, le conseguenze dal punto di vista psicologico sono pesantissime. Msf ha fornito i dati di quanti si sono rivolti alle equipe di medici e psicologi.

Tra questi anche 70 bambini, più della metà dei quali presentava disturbi post traumatici da stress, tra cui ansia e depressione. Quasi la metà di loro, inoltre, ha assistito a episodi di violenza e omicidi (40%) , mentre il 44% ha vissuto almeno un episodio che ha messo a rischio la loro vita. Circa il 20% dei pazienti ha invece subito abusi o violenze. Vittime anche di torture che, denuncia Msf, non hanno ricevuto alcun aiuto da parte delle autorità.