Il muro, il muro digitale della fortezza Europa. Di qua, ancora le regole, le leggi, un sostanziale rispetto – minacciato certo ma insomma in qualche modo ancora efficace – rispetto della privacy. Di là, un mondo di senza diritti. Tanto meno diritti digitali. Ed è proprio la fortezza Europa a spingere verso quelle violazioni.

È una denuncia gravissima quella che il 20 ottobre hanno presentato, insieme, sei organizzazioni internazionali: PrivacyInternational, Sea-Watch, Edri, AccessNow, HomoDigitalis, col sostegno della federazione internazionale per i diritti. Tutte organizzazioni non governative autorevolissime.

Insieme – utilizzando le normative europee sulla trasparenza -, dopo lunghissime battaglie burocratiche, sono riuscite a leggere i resoconti di tanti enti del vecchio continente. E scoprire così che l’Unione fa di tutto per ampliare la “sorveglianza di massa” sulle persone al di fuori dei propri confini. Con un tornaconto evidente: il controllo delle proprie frontiere.

Gli esempi? Tanti. E tutti – tutti – difficili da accettare per istituzioni democratiche. Si viene così a sapere che nell’aprile di due anni fa, il Cepol – l’agenzia europea “di contrasto” a tutto ciò che minaccia la sicurezza – ha fatto corsi di formazione alla polizia algerina per spiegare come “infiltrarsi” nei social durante le proteste. Come creare account fasulli, come controllare ed identificare gli organizzatori delle manifestazioni.

Ma qui, siamo ancora ai primi rudimenti. Un po’ più avanzato il corso che – sempre il Cepol – ha fornito agli uomini dell’intelligence marocchina, su come utilizzare Catcher IMSI, lo strumento – il terribile strumento telematico – che consente di identificare immediatamente tutti i dispositivi mobili in un’area. Consente cioè di sapere chi sta manifestando a quell’ora, in quella piazza. Corso che comunque deve esser partito da una “base” di conoscenze già avanzate, visto che il Marocco è esattamente uno di quei paesi totalitari finito sul banco degli imputati per aver usato Pegasus, lo spyware israeliano che consente di “curiosare” fra i cellulari di chiunque.

Ma nel dossier – spaventosamente lungo – non c’è solo quell’agenzia che fa scuola alle polizie meno democratiche. I documenti raccolti chiamano in causa le più grandi autorità dell’Unione. I responsabili del fondo fiduciario per l’Africa, per esempio. Si è venuti così a sapere che il Niger – già indicato all’epoca di Minniti come uno degli hub strategici per provare a fermare i flussi migratori – ha beneficiato di undici milioni e mezzo di euro per acquistare droni, telecamere e software di sorveglianza. E con quei soldi è stato costruito – in uno dei paesi più poveri subsahariani – un avanzatissimo centro di intercettazione di tutto il traffico mobile.

Di più e di più grave. L’Europa ha sostanzialmente imposto al governo di Niamey il varo di una legge che permette ai paesi europei di chiedere ed ottenere i dati personali dei cittadini nigeriani.

Così, alle frontiere europee, gli agenti sapranno subito se un migrante viene da quel paese e potranno immediatamente rispedirlo indietro.

Non basta? C’è il Senegal, paese al quale sono stati concessi 28 milioni di euro per sviluppare un sistema di riconoscimento biometrico. Proprio in quel paese che tutti consideravano “modello di stabilità” in funzione anti-jahidista e che invece ha visto, pochi mesi fa, la rivolta dei giovani e degli studenti, che sono la metà esatta della popolazione. I loro volti ora possono essere schedati. Grazie all’Europa.

Meno dati e meno dettagli, le Ong sono riuscite a conoscere su come Frontex abbia addestrato quelle bande che i media occidentali chiamano “guardia costiera libica”. Si sa solo che “esperti” hanno fornito loro strumenti per localizzare dispositivi mobili e per acquisire le impronte digitali di persone che si rifiutano di fornirle.

Di più, si è venuti a sapere invece (a pagina 112 del dossier) su come l’Europa abbia “istruito” la polizia di frontiera del Montenegro, sempre in funzione anti migranti. E si ritorna al Cepol che ha fatto dei corsi a quegli agenti per spiegar loro come “adattare” TrueCaller. Che è un software – un po’ costoso – accessibile a tutti, che permette, più o meno, di identificare chi ti chiama da un cellulare ma soprattutto è usato per bloccare i contatti indesiderati. I tecnici della Cepol hanno invece spiegato agli agenti montenegrini come si può utilizzare quell’applicazione per sapere chi sta provando a superare le frontiere della fortezza.

Ecco perché le ong hanno scritto al difensore civico (Ombudsman) dell’Unione europea. Si appellano ad una norma che imporrebbe quantomeno una “valutazione del rischio” prima di trasferire in paesi extracomunitari dispositivi e strumentazione tecnologica. Ma c’è poco da aspettarsi, visto che qualche tempo fa – in un’analoga denuncia sugli strumenti telematici affidati alla Bosnia – lo stesso responsabile, come scrive euractiv, aveva risposta che “non c’è alcun obbligo o necessità per la Commissione di effettuare una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati”. Tanto più per i progetti del Fondo Fiduciario europeo.

E allora? Le ong nella loro lettera chiedono all’Europa di “correggere il tiro”. Di impegnarsi a far rispettare anche negli altri paesi le regole che si è dotata, chiedono di interrompere tutti gli aiuti alla “sorveglianza di massa”, che è diventato il primo strumento per distruggere le vite dei migranti, delle minoranze. Dei dissidenti.

Chiedono di riflettere su quel che è avvenuto in Afghanistan, dove i database sono finiti nelle mani dei talebani.

Chiedono il rispetto dei diritti umani. Come sempre. Con una lettera. E sembra un po’ poco rispetto a quello che Marwa Fatafta, di AccessNow, definisce la vergogna di un continente che “basta che elimini dalla propria vista le violenze per sentirsi l’anima in pace”. Sembra un po’ poco. Forse perché il compito delle Ong si esaurisce nella denuncia e nell’aiuto. Il resto spetterebbe alla politica.