È la regola poco aurea di questa campagna elettorale quella di parlare il meno possibile della realtà, cioè della guerra e della crisi che dalla guerra deriva, adoperandola tutt’al più come riserva inesauribile di slogan faciloni e pietraia da saccheggiare per scagliare sassi in faccia agli avversari. Nulla di stupefacente dunque se i discorsi di Putin e di Biden di ieri trovano riflesso molto minore dell’ugola di Laura Pausini o di quattro fischi al comizio di Sorella Giorgia.

Letta, per esempio, è «molto preoccupato»: in equa misura per l’escalation militare e per «le ambiguità della destra italiana sul tema della Russia». Tanto ambigua la leader di FdI per la verità non sembra: «Putin tradisce una grande debolezza che chiama tutti alla compattezza perché uno in quelle condizioni può aprire scenari di ogni genere. Quello che la comunità internazionale ha messo in campo sta funzionando a partire dalle sanzioni». Il severo Letta non avrebbe saputo dirlo meglio ma è anche vero che quando parla di guerra Meloni valuta l’effetto che le sue parole avranno oltre confine, a Washington e Bruxelles, mica in Italia.

MA SI SA CHE QUANDO il segretario del Pd parla di «destra ambigua» sulle sanzioni pensa a Salvini non a Meloni. E il leghista qualche soddisfazione gliela dà perché è vero che ribadisce la promessa di «proseguire nella difesa della libertà del popolo ucraino» però vorrebbe anche cercare, «d’intesa con gli alleati europei», una pace «che non umili nessuno». Nel clima forsennato da guerra e quinta colonna, già questo suona più che sospetto.

SI ALLARGA DI PIÙ CONTE. Sente di avere di nuovo il vento in poppa, sa che almeno a breve non dovrà rendere conto con i fatti e dagli scranni del governo, delle sue parole. Si concede qualche libertà in più dell’imbarazzato Salvini: «Vogliamo una escalation militare senza più limiti e confini? Accettiamo questo rischio? Io non sono assolutamente d’accordo». E ancora: «Chiedere più armi significa accettare l’escalation».

ATTENZIONE PERÒ: la postazione secondaria che il nodo centrale del presente, la guerra, occupa nel cicaleccio di una delle peggiori campagne elettorali della nostra storia non deriva solo, e forse non tanto, da reticenza e incapacità di andare oltre il livello bassino assai della propaganda. C’è anche se non soprattutto la consapevolezza che accomuna tutti di avere su questo fronte pochissima voce in capitolo. La voce di Roma, senza Draghi che almeno vantava un peso personale notevole, inciderà pochissimo.

LE COSE STANNO diversamente sul fronte della crisi economica, perché lì il prossimo governo dovrà muoversi e farlo in fretta se vorrà evitare il rischio di una catastrofe sociale. Le misure del nuovo decreto aiuteranno ma, come i 4 decreti di sostegno precedenti, solo in parte e solo per poco mentre la crisi è destinata a prolungarsi e peggiorare. L’intemerata di Putin, per esempio, non ha avuto ricadute sul prezzo del gas: al contrario è sceso sino a 189 euro a megawattora invece di aumentare. In compenso si è impennato, raggiungendo il picco da due mesi, quello del grano.

A INCROCIARE LE SPADE, per l’ennesima volta, sono i due principali leader della destra. «Servono 30 miliardi subito per non doverne tirare fuori 100 a natale. Non so perché gli altri dicano no allo scostamento di bilancio», torna alla carica Salvini. Tra quei no, che poi non sono così corali dato che sia Conte che Calenda sarebbero del tutto favorevoli, è stentoreo proprio quello dell’alleata tricolore: «Lo scostamento è un pozzo senza fondo che regaliamo alla speculazione».

In effetti, se non si limitasse al comizio, Salvini dovrebbe partire dalla richiesta di fare debito, che in sé non è affatto una bestemmia, per dispiegare un piano concreto e solido per fronteggiare la crisi che si prospetta e per la quale non basterebbero neppure i 30 miliardi invocati. D’altra parte, se non fosse preoccupata solo dal rassicurare gli occhiuti contabili di Bruxelles sulla sua totale affidabilità anche sul fronte dei conti pubblici, la possibile futura premier corroborerebbe il suo no allo scostamento con proposte alternative degne di menzione. Ma non è cosa da campagna elettorale all’italiana. Se ne riparla a urne chiuse.