Gli orologi fermi alle 18.08 trovati tra le macerie di Beirut nei giorni dopo l’esplosione al porto sono il simbolo di un blocco emotivo e psicologico che chi ha vissuto quella catastrofe difficilmente riuscirà a superare. Ma sono pure il simbolo di un altro e forse ancora più grave blocco: quella della giustizia, perché a oggi nessun passo in avanti è stato fatto per dare dei nomi e dei volti a chi ne ha le responsabilità materiali e morali.

È MARTEDÌ 4 AGOSTO 2020. Si avverte una prima esplosione, dopo pochi istanti una seconda e poi un’onda d’urto spaventosa con un raggio di 200 km avvertita fino in Siria, a Cipro. Tutti pensano a un bombardamento. Poi si scopre che il capannone 12 al porto è saltato in aria: un deposito contenente 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio stoccate lì dal 2014, dopo il sequestro della nave moldava Rhosus, assieme ad altro materiale esplosivo. I morti accertati sono più di 200, ma le stime non possono essere precise dato l’alto numero di immigrati e rifugiati irregolari, i feriti oltre 6mila e oltre 300mila gli sfollati.

Le famiglie delle vittime hanno istituito un comitato. Si riuniscono il 4 di ogni mese davanti alla sede del tribunale che si occupa del caso per protestare. Organizzano cortei strazianti con decine di auto a cui sono incollate le foto dei familiari persi e girano per la città. Poi si fermano, improvvisano brevi comizi nei quartieri e prendono la parola uno alla volta con le voci alterate dalla rabbia e spezzate dal pianto. Vogliono giustizia, ma soprattutto vogliono che i loro cari non vengano dimenticati, che l’esplosione non venga normalizzata come uno dei tanti orrori avvenuti nella storia più e meno recente del Libano.

IL PROCESSO IN REALTÀ parte con il piede sbagliato. La scelta del giudice si era rivelata non semplice: Fadi Sawan, rimosso dopo soli sei mesi con l’accusa di scarsa oggettività, essendo per il Consiglio superiore della Magistratura coinvolto emotivamente in prima persona poiché residente ad Ashrafieh, uno dei quartieri più colpiti – la cui rimozione è stata percepita come un atto politico di depistaggio – non era il primo della lista, ma il terzo.

La ministra della giustizia ad interim Najem, cristiano-maronita, aveva prima di lui indicato il giudice Samer Younes, criticato per la sua vicinanza al presidente Aoun e respinto dal Csm; e poi Tareq Bitar, che aveva rifiutato senza rendere pubblica la motivazione. Neanche Sawan era stato esente da critiche, accusato più volte di essere allineato con le forze pro-Assad in Libano (Hezbollah, Amal e il Movimento Patriottico Libero di Aoun). La ministra ha quindi riproposto Bitar, che ha accettato, ma solo dopo aver incassato l’ennesimo rifiuto del Csm su Younes.

MA NON C’È DRAMMA senza speculazione. Come avvoltoi gli agenti immobiliari si sono fiondati contanti alla mano sulle abitazioni distrutte per comprarle per pochi spiccioli a poche ore dal disastro. Quartieri come Mar Mikhael, Geitawe, Gemmayze, fortemente colpiti e centralissimi, hanno accelerato un processo di gentrificazione in atto da anni.

Il contesto specifico della crisi e della svalutazione della lira libanese (al mercato nero il dollaro, a cui è agganciata a un tasso di 1.507 lire, valeva allora circa 8-9mila e oggi 20mila) ha visto molti proprietari approfittarne per cacciare vecchi inquilini con la scusa dell’inagibilità, rimettere a posto le case con i fondi arrivati tramite ong internazionali (il cui uso non è stato sempre coordinato con gli enti preposti lasciando ampio spazio a illeciti edilizi) e affittare a stranieri occidentali del terzo settore o a locali che potessero pagare in dollari contanti.

CHI HA POTUTO ha lasciato il Libano nella più grande diaspora dai tempi della guerra civile (1975-90), disilluso dal fallimento della thaura (rivolta) scoppiata il 17 ottobre 2019, che si proponeva di destituire in toto la classe politica corrotta e clientelare che ha portato il paese alla rovina.

La stessa che ora gestisce la crisi, l’emergenza e che non è stata capace di dare un governo al paese dopo le dimissioni del premier Diab subito dopo lo scoppio, perché impegnata nell’endemica lotta per la spartizione del potere. L’esplosione ha spazzato via ogni rimasuglio di speranza.

GLI ATTORI INTERNAZIONALI mobilitatisi a seguito dell’evento e in piena crisi hanno dato l’impressione di voler riaffermare ciascuno la propria autorità in Libano. L’Iran ha mandato un milione e 200mila dosi di vaccini pochi giorni fa a Hezbollah e ha dichiarato la disponibilità a esportare benzina (un’altra delle crisi nella crisi); la Francia nella persona di Macron si è fatta garante di una sostanziosa iniziativa economica a patto di riforme ancora imprecisate che gli stessi che hanno condotto il paese all’insolvenza dovrebbero implementare.

L’Osservatorio per i Diritti umani ha accusato ieri le «molteplici autorità libanesi di negligenza criminale nei confronti della legge libanese» nella gestione del carico di nitrato di ammonio in un report che titola: «Ci hanno ucciso dall’interno: indagine sull’esplosione a Beirut il 4 agosto».

Mentre si discute ancora dopo un anno sulla possibilità di rimuovere in vista del processo l’immunità parlamentare, il Libano piange oggi i suoi morti e il dolore è tutt’uno con il senso di impotenza davanti all’impunità del potere.