L’esito elettorale delle elezioni tedesche è a mio avviso coerente con la sottolineatura del mediocre andamento dell’economia del paese nei sedici anni della cosiddetta “era Merkel”. Un risultato che spiega anche perché le elezioni sono state vinte, seppure di misura, dai socialdemocratici che con il 26% hanno recuperato 5 punti dal precedente cedimento dei consensi. Mentre i democristiani sono crollati, perdendo 9 punti e i “verdi” aumentati, ma restando lontani dai vertici.

Nei media italiani, i dichiarati esperti della società tedesca hanno parlato di una economia di Berlino “rafforzata” nel lungo governo della grande statista. Una affermazione che non corrisponde al vero (cfr. A. Bolaffi-P. Ciocca, Germania/Europa, Donzelli 2017 e, da ultimo, G. Nardozzi, Una nuova Germania per l’Europa? Brioschi, 2021).

L’economia tedesca resta, strutturalmente, la più “forte” in Europa, ma dal 2005 alla vigilia della crisi pandemica non si è “rafforzata”. Si è, al contrario, su più fronti indebolita.

Dal 2005 al 2019 il Pil è aumentato solo dell’1,4% l’anno (1,2% pro-capite). Un risultato siffatto è prossimo a quello della Germania appesantita dalla riunificazione nel 1990-2004; il peggiore dal Dopoguerra; inferiore a quelli del mondo e degli Stati Uniti, persino analogo a quello di un’Europa gravata dal declino italiano.

Gli investimenti hanno oscillato attorno al 19% del Pil, mentre il risparmio nazionale è balzato dal 23% al 29% del prodotto. La produttività ha latitato. La parte pubblica degli investimenti non è bastata nemmeno ad ammortizzare, a manutenere, le infrastrutture esistenti, che si sono quindi in molti casi deteriorate, a cominciare dai ponti sui fiumi.

Il risparmio non investito all’interno è defluito all’estero attraverso avanzi di bilancia dei pagamenti correnti abnormi, dovuti non a guadagni di competitività di prezzo del made in Germany ma alla bassa domanda interna.

La posizione creditoria verso il resto del mondo della Germania è esplosa sino a travalicare il 70% del Pil. Per i rischi assunti in un contesto di tassi d’interesse sui minimi storici, su questi fondi il Paese, divenuto più rentier che industriale, ha subito perdite in conto capitale per centinaia di miliardi.

Salari, redditi disponibili delle famiglie, servizi pubblici, misure per i meno abbienti, cura dell’ambiente: il “sociale” ha pesantemente risentito dello scarto fra la modesta crescita della produzione realizzata e il potenziale che avrebbe potuto esprimere una economia ampiamente dotata di risparmio, forza-lavoro, grandi imprese, tecnologia.

Se quello scarto si è aggirato su un punto di Pil all’anno, in tre lustri il reddito dei cittadini tedeschi è stato cumulativamente dissipato, ai prezzi attuali, per più di mezzo trilione … Si aggiunga l’effetto di freno inflitto all’area dell’euro, all’intera Ue.

Che chi ha guidato in questa guisa, per ben tre lustri, l’economia tedesca subisse perdite elettorali era ovvio. Era altresì prevedibile che non stravincessero i verdi, portatori di una istanza ecologista sentita, ma secondaria rispetto a quella del benessere materiale. Era invece semplicemente probabile, e si è verificato, il recupero socialdemocratico: quel “sociale” rimane pur sempre scolpito nell’etichetta del glorioso partito dei lavoratori della Germania, al di là dei propri limiti.

E il futuro?

Dovrà essere ridiscusso e superato il neomercantilismo che la Germania ha affidato al rigore di bilancio, avendo come conseguenza se non addirittura come obiettivo intermedio i surplus commerciali e finanziari verso gli altri paesi. Oltre che negativa per la crescita economica della stessa Germania e dell’Europa, quella impostazione nel governo dell’economia si configura sempre più come geopolitica di potenza, fondata sulla Germania capace di condizionare i partner come un creditore condiziona i debitori.

La cartina di tornasole sarà data dall’evitare almeno tre gravi errori:

  1. ricadere nelle strettoie del fiscal compact;
  2. affidare alla sola Banca Centrale il sostegno della domanda globale;
  3. soprattutto, conservare nel doveroso freno al debito degli Stati l’assurda equiparazione fra uscite correnti, da contenere, e investimenti pubblici ad alto moltiplicatore di occupazione e produttività, da promuovere.

Keynes – che avversava disavanzi e debiti pubblici! – deve fare aggio sull’ordoliberalismo.

L’apertura manifestata dalla stessa Cancelliera Merkel col piano Next Generation Eu fa sperare. Sarebbe inaccettabile, alla luce dell’esperienza fatta, un’Europa che non fosse comunità fra pari e che tornasse a tollerare disoccupazione e bassa crescita.