Un ritratto della regista

Non sempre le ingiustizie fanno rumore. È suoi condizionamenti silenziosi che si sviluppa Due fratelli, secondo film di Léonor Serraille, regista e sceneggiatrice francese classe 1986. Presentato a Cannes, sarà nelle nostre sale dal 31 agosto. Jean e Ernest sono due bambini che dalla Costa d’Avorio si ritrovano in Francia, negli anni ’90, insieme alla loro madre, Rose. I destini di questi tre personaggi sono raccontati da Serraille con il respiro della letteratura, indagando l’aspetto psicologico dello sradicamento.

Come ha trovato il suo punto di vista in questa storia?

Due fratelli è legato al vissuto del padre dei miei figli: quando l’ho conosciuto, a 17 anni, mi diceva di non ritrovarsi nei film. Non esistere nella finzione significa non fare parte della vita di un Paese, quindi ho pensato che fosse importante realizzare un film del genere. Lui mi ha dato carta bianca: appropriati di questa storia, falla tua, mi ha detto. Ero come una testimone molto vicina e credo sia una posizione privilegiata, la distanza giusta per raccontare. È stata poi una sfida di scrittura, cogliere una donna attraversa il tempo, con questi tre personaggi che lottano per trovare se stessi. Ma è nello spazio tra la pressione sociale, tra ciò che si vuole fare e ciò che si riesce effettivamente a fare, che si sviluppa la storia. Potremmo non riuscire mai ad essere ciò che gli altri si aspettano da noi e questo è particolarmente forte per Jean, il fratello maggiore, perché è spesso dai primi figli che le famiglie si aspettano di più.

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Le avventure di una giovane donnaLa famiglia è un paradosso: è una guida, ma allo stesso tempo è come se ci mettesse delle catene ai piedi. Jean vive un doppio sradicamento, prima dall’Africa alla Francia, e poi dalla periferia parigina a una piccola città, la borghese Rouen, in un liceo molto chic, con classi preparatorie, concorsi, una forte pressione per ottenere il successo. Ed è molto difficile dare a se stessi l’autorizzazione di riuscire quando si ha la storia di Jean, bisogna amarsi molto, essere forti per essere un po’ un «disertore» della propria classe sociale. Non basta prendere bei voti, per superare le prove delle Grandes Écoles bisogna possedere tutta una serie di codici culturali non scritti. La scuola è centrale nel film perché dovrebbe essere la strada maestra per la realizzazione e la libertà. Ma è molto più complicato di così, ci si illude sull’uguaglianza e la meritocrazia in Francia.

Invece l’altro fratello, Ernest, riesce a diventare professore di filosofia. Ciò è possibile perché non ha ricordi della sua infanzia in Africa?

Me lo sono chiesta in tutte le fasi del film: perché Ernest ce la fa? Sicuramente ha costruito la sua vita diversamente, e poi ha avuto l’esempio del fratello maggiore, lo ha visto andare nella direzione sbagliata. Forse vuole solo rendere Jean orgoglioso di sé.

Ha evitato tutti i cliché nel raccontare la madre, Rose.

Non volevo potare sullo schermo una donna perfetta. Ho rispettato alcune fasi avvenute nella vita della madre del mio compagno, l’arrivo da giovane in Francia, il fatto che aveva diversi figli e che lavorava come donna delle pulizie in un hotel a Parigi, e infine il trasferimento in una città più piccola. Dopodiché ho inventato Rose, che è, credo, l’insieme di molte donne che ho incontrato. Mio padre lavorava in un centro di reinserimento per donne single con bambini, sono sempre stata molto interessa ai percorsi di coloro che arrivano sole e ripartono da zero in Francia. Ma ci sono anche alcuni elementi di donne che appartengono alla mia famiglia: personalità complesse, irriverenti e allo stesso tempo con una forma di grazia.

L’aspetto letterario è molto forte nel film.

Senza volerlo, rispecchia un po’ il mio compagno: sempre immerso nei romanzi del 19° secolo, ama la poesia, anche se spesso si sente come se non avesse mai avuto il diritto di esservi associato. Come se, provenendo da un paese dell’Africa sub-sahariana, dovesse ascoltare rap e essere arrabbiato tutto il tempo. Ma come per un romanzo, le persone devono poter proiettare se stesse, mettersi nei panni dei personaggi. Per questo il lavoro con la direttrice della fotografia Hélène Louvart è stato importante, eravamo molto interessate alla levigatezza della pelle, alla morbidezza. Era la parola che veniva fuori di continuo, negli sguardi tra di loro, o osservando come cambia lo sguardo della madre, che forse non riesce a dire ai suoi figli quanto li ama. Il film racconta dei destini, delle vite, che devono essere guardate con gentilezza.