In principio furono gli aquiloni. Ora i robot. In mezzo ci sono 60mila (stimati) prigionieri politici in carne e ossa. Le ultime notizie che arrivano dall’Egitto raccontano – o meglio, confermano – la natura di un regime che da quello precedente di Mubarak ha ereditato la centralità dei servizi segreti. E della paranoia.

L’ANSIA DI CONTROLLO e l’idea che una minaccia esterna, come una cappa, sormonti il paese l’aveva dato già l’anno scorso il divieto a far volare gli aquiloni, intesi come potenziali spie dall’alto dei segreti militari egiziani.

Ora la spia è una robot umanoide di nome Ai-Da. La notizia del suo «arresto» è giunta a detenzione finita: dieci giorni sotto custodia per «ragioni di sicurezza». Una motivazione che chi viaggia per il Medio Oriente impara subito a conoscere. Vuol dire tutto e non vuol dire niente.

Nel caso di Ai-Da il problema era negli occhi-telecamere: e se fossero state messe lì per spiare? Ma facciamo un passo indietro. Ieri, teatro le piramidi di Giza, si è aperta un’esposizione di arte contemporanea, «Forever is Now», organizzata da Art D’Egypte e dai ministeri degli Esteri e delle Antichità e il Turismo.

Tra gli artisti presenti anche Aidan Meller, direttore dell’omonima galleria londinese nonché ideatore del progetto Ai-Da: una robot-artista basata su un algoritmo creato dagli studenti di Oxford. Una robot che fa arte, che dipinge. Il modo di Meller di avvertire sui pericoli insiti dietro l’abuso di tecnologie e intelligenze artificiali.

MA AI-DA PER CREARE ha bisogno di occhi: guarda e così capisce cosa dipingere. Per la sicurezza egiziana quelle telecamere potevano essere usate per spiare. Per questo è stato arrestata, provocando tra l’altro le proteste dell’ambasciata britannica al Cairo.

Meller non l’ha presa troppo male: «La gente ha paura dei robot – ha detto al Guardian–- Ma tutta questa situazione è ironica, perché l’obiettivo di Ai-Da è proprio mettere in guardia sull’abuso dello sviluppo tecnologico. E lei è stata arrestata perché è tecnologia. Penso che Ai-Da apprezzerebbe l’ironia».

AI-DA NON È PARTE di un complotto straniero per danneggiare lo Stato egiziano. Ma la paura è quella che guida molte delle scelte politiche della complessa macchina della sicurezza del regime. Una macchina fatta di innumerevoli ingranaggi, ognuno dei quali tiene in piedi una leadership – quella del presidente al-Sisi – che altrimenti non avrebbe altra fonte di legittimità.

E se l’arresto di un robot potrebbe far sorridere, il divertimento sparisce quando si considera quell’arresto parte di un quadro più grande. Quello che impedisce di giungere alla verità sul sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, quello che detiene Patrick Zaki da un anno e mezzo.

E QUELLO CHE HA APERTO un nuovo processo, l’ennesimo, contro il blogger e attivista Alaa Abdel Fattah. Lo scorso lunedì si è svolta la prima udienza, la seconda è prevista per il primo novembre. È solo l’ultimo atto di una lunga persecuzione, cominciata sotto Mubarak e proseguita sotto l’attuale governo, dopo il ruolo centrale avuto da Abdel Fattah nella rivoluzione di piazza Tahrir del gennaio 2011.

Insieme all’attivista, a processo ci sono anche il suo legale Mohamed al-Baqer e un altro blogger, Mohamed «Oxygen» Ibrahim, tutti accusati di diffusione di notizie false. I tre sono in detenzione preventiva dal settembre 2019 (oltre, dunque, i due anni di custodia cautelare previsti dalla stessa legge egiziana).

Lunedì Abdel Fattah ha parlato alla corte ricordando le violazioni commesse: «La procura non mi ha interrogato per 23 mesi. E dopo 23 mesi scopro che sono accusato di aver diffuso una notizia».

IL «REATO», nello specifico, è la condivisione di un tweet su un prigioniero morto per mancanza di cure nel mega carcere di Tora, al Cairo. «Chiedo che ci rilasciate subito – ha proseguito l’attivista – Se non lo farete, chiedo di poter vedere i miei avvocati, con cui non parlo da maggio». Il mese scorso il blogger aveva detto di stare pensando al suicidio, unica via di fuga da una persecuzione apparentemente senza fine.