Serve tutto l’ottimismo della volontà per definire una «accelerazione» la notizia che la riforma della legge elettorale sarà incardinata nell’aula della camera dei deputati il 28 settembre. Se tutto va bene, perché la formula obbligata con la quale ha preso la decisione ieri la conferenza dei capigruppo è: «Se saranno conclusi i lavori in commissione». Lavori che cominceranno martedì 8 settembre e dovranno presto essere sospesi, perché il parlamento osserverà la tradizionale settimana di pausa prima delle elezioni regionali. Appena una settimana fa il segretario del Pd Zingaretti aveva ripetuto che «si può votare la legge elettorale almeno in una delle due camere» prima del 20 settembre. L’«accelerazione» di ieri consiste nella ratifica che – forse – se ne comincerà a discutere in aula alla camera una settimana dopo. Senza che ci sia una maggioranza sul sistema proporzionale con soglia di sbarramento nazionale al 5%, il testo presentato dal presidente della prima commissione Brescia che sarà adottato come testo base. Ancora ieri i renziani hanno confermato di essere rimasti fedeli al modello, già dichiarato incostituzionale, dell’Italicum (il ballottaggio per il «sindaco d’Italia»). E di essere disponibili a parlare di proporzionale solo a fronte di modifiche costituzionali di lunghissima elaborazione (superamento del bicameralismo paritario, sfiducia costruttiva).

D’altra parte la legge elettorale si presta a ogni tipo di battaglia dilatoria e opportunistica, almeno fino a che le elezioni non appaiono dietro l’angolo. E se è vero che Forza Italia può avere una convenienza a convergere verso un modello proporzionale che consentirebbe qualche autonomia da Salvini, è vero anche che una battaglia ostruzionistica in nome di una (vera o presunta) fede maggioritaria resta la soluzione più comoda.

La conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha anche deciso la calendarizzazione, il 25 settembre, della riforma costituzionale Fornaro che cambia la base elettorale del senato e allinea il numero dei delegati regionali (quelli che partecipano all’elezione del presidente della Repubblica) al ridotto numero dei parlamentari. Più avanti la riforma che omogenizza l’elettorato attivo e passivo del senato (18 e 25 anni) a quello della camera: l’aula del senato se ne occuperà la prossima settimana e potrebbe essere l’unico tassello ad andare al suo posto prima del referendum. Anche se siamo in ogni caso in prima lettura e in qualche caso (per le modifiche costituzionali, non per la legge elettorale) le letture dovranno essere quattro. L’elenco delle «compensazioni» che avrebbero dovuto essere «contestuali» al taglio dei parlamentari, secondo l’accordo di maggioranza, è in realtà assai più lungo e comprende anche capitoli inesplorati, come il delicatissimo nodo della riforma dei regolamenti di camera e senato.
Zingaretti, però, potrà rivendicare la «accelerazione» di ieri quando lunedì prossimo chiederà alla direzione del partito di orientare il Pd per il Sì al referendum. Di Maio lo incalza con i consueti toni: «Adesso non ci sono più scuse, tutti i partiti siano trasparenti nel sostenere il Sì».

Sostiene invece il No un nutrito gruppo di personalità chiamato a raccolta da Rosy Bindi, tra i tanti Pietro Grasso, Luigi Ciotti, Carla Nespolo, Guido Bodrato, Marisa Rodano, Silvia Calamandrei, Marianna Scalfaro, Mario Primicerio, Carlo Zaccagnini, Rosa Russo Jervolino, Livia Turco, Rossella Muroni, Susanna Camusso.