L’eccidio che cambiò l’India
Un momento della demolizione della moschea avvenuta venticinque anni fa
Internazionale

L’eccidio che cambiò l’India

India Il 6 dicembre ’92 estremisti hindu demolirono la moschea di Ayodhya. Gli scontri e i pogrom antimusulmani fecero migliaia di morti, tradendo la promessa di un paese multiculturale
Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 7 dicembre 2017

Più della metà della popolazione indiana ha oggi meno di 25 anni. Approssimando, parliamo di seicentocinquanta milioni di persone che il 6 dicembre 1992, mentre la storia dell’India contemporanea cambiava irrimediabilmente, in peggio, non erano nemmeno nate.

IL RICORDO, IL DOLORE e le promesse tradite di un’India multiculturale, accogliente, laica e orgogliosa della propria diversità – l’India prefigurata dal primo ministro Jawaharlal Nehru nel 1947 – si tramanda di anno in anno mostrando fotografie diventate ormai iconiche. Una su tutte: un gruppo di uomini sgranati, agghindati con bandane e bandiere arancioni, che festeggia in cima alla cupola di una moschea.

LA FOTO IMMORTALA alcune dozzine di «kar sevak», «servitori» in hindi, affiliati alla costellazione dell’estremismo hindu (la Sangh Parivar, «famiglia delle organizzazioni») intenti a demolire la Babri Masjid, moschea del XVI secolo eretta per volere del sultano di dinastia Moghul Babar nella città di Ayodhya, in Uttar Pradesh. Allargando il campo, con un po’ di immaginazione, si vedrebbero centinaia di migliaia di ultrainduisti armati di martelli e picconi, a formare una marea umana di intolleranza scagliata contro una struttura architettonica promossa a simbolo d’infamia.

PER LA PROPAGANDA ultrainduista, la moschea fu eretta sopra le ceneri di un grande tempio hindu dedicato a Ram, summa della prevaricazione subìta dalla popolazione autoctona hindu durante l’invasione dello straniero musulmano che ora, dopo secoli, andava ripagata con la stessa moneta. E se non fosse bastato, anche col sangue.

Nonostante storiografi e storici dell’arte abbiano finora escluso la presenza di un tempio hindu sotto le fondamenta della fu Babri Masjid, e da decenni i 2,77 acri su cui sorgeva la moschea fossero oggetto di una disputa legale tra rappresentanti delle comunità hindu e musulmana locali, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta il tema del Ram Janmabhoomi («luogo di nascita di Ram») divenne la pietra angolare su cui sperimentare nuove architetture elettorali erette nel nome dei dissidi intercomunitari.

La famiglia delle destre ultrahindu, dalla Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) alla Viswha Hindu Parishad (Vhp), promuovendo una lettura inedita del poema epico Ramayana, riuscì a inculcare in una larga fetta dell’elettorato hindu la certezza storica dell’esistenza di quel tempio di Ram, facendone leitmotiv di un pellegrinaggio-campagna elettorale condotto in gran parte dell’India settentrionale sotto il vessillo del Bharatiya Janata Party (Partito popolare indiano), all’epoca formazione politica decisamente minoritaria.

SOTTO LA GUIDA DI LK ADVANI, nel 1990 la carovana della destra hindu, Bjp in testa, di villaggio in villaggio, di città in città predicò il verbo intollerante dell’Hindutva, la teoria suprematista hindu secondo cui nell’India repubblicana non c’è spazio per le minoranze religiose. Aizzando centinaia di migliaia di seguaci, pronti a distruggere a mani nude la moschea della discordia, Advani e la marea ultrahindu furono fermati dall’intervento delle forze dell’ordine prima in Bihar, poi in Uttar Pradesh, stati dove il Bjp riscontrava ben pochi consensi. Un anno dopo, forte della propaganda intorno al tempio di Ram, il Bjp vinse le elezioni locali dell’Uttar Pradesh e nel 1992, ora con un governo locale a favore, la Sangh Parivar marciò nuovamente su Ayodhya.

IL 4 DICEMBRE 1992, rispondendo alle preoccupazioni del governo federale guidato dal «centrosinistra» dell’Indian National Congress, gli alti papaveri di Bjp, Rss e Vhp rassicurarono l’opinione pubblica e le autorità: ad Ayodhya ci sarà solo una cerimonia simbolica per inaugurare la realizzazione del tempio di Ram.

Il 5 dicembre, secondo le ricostruzioni, alle centinaia di migliaia di ultrahindu arrivati da tutta l’India settentrionale ad Ayodhya furono distribuiti attrezzi contundenti e all’alba del 6 dicembre, col beneplacito della polizia dell’Uttar Pradesh, la marea umana violò i sigilli della moschea e, in meno di sei ore, la rase al suolo.

OGGI, 25 ANNI DOPO, le ceneri della Babri Masjid hanno acquisito un significato ben più grave della demolizione di un patrimonio architettonico e culturale dell’India moderna. Sono le ceneri dell’India laica e multiculturale, i frantumi di un modo di fare politica tenendo fede ai principi inclusivi e democratici sanciti dalla Costituzione, su cui la destra hindu, anche grazie all’inazione di gran parte dell’arco parlamentare, ha già costruito un’India sempre più intollerante e violenta, dove gli scontri intercomunitari puntualmente insanguinano la quotidianità di 1,3 miliardi di persone.

SUBITO DOPO AYODHYA, 2mila morti in riots diffusi in tutto il paese, fu la volta dei riot di Bombay di gennaio 1993, novecento morti, e delle bombe di marzo, 257 morti; dieci anni dopo, fu il Gujarat 2002, altri duemila morti, e focolai di pogrom anti-musulmani nel resto del paese. Più di recente, Muzaffarnagar 2013, 62 morti e 50mila musulmani in fuga dalla violenza settaria, e decine di episodi che a scadenza settimanale raccontano di musulmani linciati col pretesto del consumo di manzo, villaggi di dalit date alle fiamme, cristiani minacciati, giornalisti freddati davanti casa propria, attori e registi minacciati di morte per aver «offeso la sensibilità hindu».
25 anni dopo, ancora si attende una sentenza della Corte suprema circa i fatti di Ayodhya, in un processo che vede diversi membri dell’ultradestra e del Bjp alla sbarra con l’accusa di associazione a delinquere. Nel frattempo, affiancando all’agenda ultrahindu lo specchietto per le allodole del progresso in salsa neoliberista, il Bjp è diventato il primo partito nazionale. Oltre al primo ministro Modi, controlla gran parte dei governi dell’India settentrionale, in un’egemonia culturale che gli osservatori fanno risalire ai fatti di 25 anni fa. L’India intollerante e allergica al dissenso e alla libertà d’espressione di oggi si erge sulle ceneri della Babri Masjid, sulle promesse di un’India pluralista e democratica andate in frantumi.

Dopo 25 anni ancora non c’è una sentenza della Corte suprema
La disputa intorno al terreno su cui sorgeva la Babri Masjid risale alla fine del diciannovesimo secolo, in epoca coloniale. Una parte della comunità hindu di Ayodhya sosteneva che la moschea del sedicesimo secolo fosse stata realizzata demolendo un tempio hindu dedicato a Ram, uno degli avatar di Vishnu, ubicato nel preciso luogo di nascita del dio.

Nel 1950 il governo indiano sigillò l’intera area dove sorgeva la moschea, in seguito alla provocazione messa in atto da alcuni fedeli hindu che, entrando di notte nel luogo di culto, vi piazzarono degli idoli del dio Ram.

Il dibattimento legale sull’utilizzo esclusivo, per fini religiosi, dei 2,77 acri di terreno dove sorgeva la moschea, demolita da una folla di ultrahindu il 6 dicembre del 1992, è ancora in corso. La Corte suprema indiana ha più volte invitato le tre parti in causa – un’organizzazione musulmana sunnita, due hindu – a una risoluzione amichevole del contenzioso fuori dal tribunale. Constatando l’impossibilità di trovare un accordo tra le parti, il 6 dicembre 2017 il tribunale ha nuovamente aggiornato la seduta al febbraio del 2018.

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