Tutto prevedibile, tutto previsto: la scelta del governo di mettere la fiducia sulle unioni civili alla Camera, l’annuncio della ministra Boschi, gli applausi della maggioranza, come se far passare così una legge pur disponendo di ampia maggioranza fosse una eccezionale prova di valore. Poi le proteste delle opposizioni, sacrosante ma inutili, l’accusa di ignorare e umiliare il Parlamento, oltre metà del quale, però, a farsi trattare da inerte macchina da voto se la gode un mondo. Giusto qualche battutaccia da commedia all’italiana esorbita dal copione, come quella del fittiano Bianconi: «La ministra viene, mette la fiducia, porta via il sedere e se ne va. Ma dove crede di essere?». In Parlamento, onorevole.

La conferenza dei capigruppo ratifica solerte. Le unioni civili saranno legge oggi stesso, intorno alle 16 o giù di lì. A movimentare la scena ci pensa dall’esterno il candidato Arfio, ogni giorno più in caccia dei voti della destra: «Se vinco non celebrerò unioni gay. Non è compito del sindaco». E’ propaganda spiccia, dal momento che nulla impone al sindaco di celebrare di persona, senza contare il particolare per cui i matrimoni gay non sono previsti dalla legge. Ma figurarsi se il Pd non regala al palazzinaro l’aura del difensore della famiglia, non per ingenuità ma per rivendersi a propria volta la patina dei difensori dei diritti civili. E’ la stessa Boschi a imbufalirsi per prima: «Ogni sindaco è chiamato a rispettare la legge». La mamma della legge, Monica Cirinnà, rincara: «Marchini vuole essere un sindaco che non rispetta la legge. Se non celebrerà le unioni civili andrà contro una legge dello Stato con tutte le conseguenze civili e penali». Ma figurarsi… Propaganda per propaganda, il candidato dem Giachetti, almeno è più laconico: «Io invece le unioni civili non vedo l’ora di votarle».

Marchini ravviva la scena a scopo elettorale. Il segretario della Cei monsignor Galantino prende la faccenda più sul serio, ma è significativo che anche lui bersagli prima la scelta di passare per la scorciatoia della fiducia, «rappresenta sempre una sconfitta per tutti, anche per i governi passati», e solo poi arrivi al merito invocando «politiche che mettano al centro la famiglia fatta di madre, padre e figli». Segno che la Chiesa non vuole fare di questa legge, pur disapprovandola, un casus belli lacerante.

Eppure questo voto di fiducia, pur se certo già da settimane, non era scontato perché non è giustificato. Al Senato i numeri ballerini e la diffidenza nei confronti dell’M5S fornivano al voto blindato una spiegazione. Ma alla Camera, dove la maggioranza è netta, si poteva forse evitare, dopo aver sbandierato la libertà di coscienza, una fiducia che della libertà di coscienza è l’opposto. Renzi ha preferito non farlo, un po’ perché teme la dissidenza dei suoi deputati ostili alla legge, ma molto di più perché il voto di fiducia, l’atto di forza sbrigativo e decisionista, gli serve per accreditarsi agli occhi dell’elettorato di sinistra sul fronte almeno dei diritti civili. Lui, si sa, avrebbe preferito fare anche di più e portare in aula alla Camera prima del voto la riforma delle adozioni, la legge che dovrebbe riaprire le porte alle adozioni gay.

Per Renzi riuscire nella missione quasi impossibile di restaurare la propria immagine agli occhi del popolo di sinistra non è un optional. Di qui a ottobre è questione di vita o di morte. Le amministrative sono un salto nel buio: potrebbe andare meglio del previsto, ma potrebbe anche finire in un disastro, dal momento che dopo Milano, considerata certissima e ora in bilico, la medesima situazione si è creata a Torino. Per non parlare di Roma e Napoli dove la sconfitta è data per certa e anche solo l’arrivo al ballottaggio è invece incertissimo.

Anche il referendum è ormai senza rete. A parte le sparate sui 10mila comitati per il sì, che varrà la pena di contarli, Renzi è già pronto a giocare l’arma del terrore. Dopo l’estate, lui e il coro dei fedeli e fedelissimi inizieranno a suonare a distesa le sirene d’allarme. Una vittoria del no significherebbe il disastro economico, sarebbe la fine delle concessioni europee, che ci hanno regalato la flessibilità solo in cambio della riforma. Sarebbe inevitabile la crisi di governo e il conseguente crollo della Borsa. L’Apocalisse. Forse basterà a recuperare l’attuale svantaggio nei sondaggi. Ma senza gli elettori di sinistra alle urne, e senza un po’ di attivo appoggio della minoranza interna, il rischio sarà immenso.