La nuova farmacia di Mohammad Sehveil a Khan Younis è un tavolino, tre pareti di stoffa, mensoline in legno e un cartello con una scritta in vernice rossa: «Farmacia al Shifa». Sopra le mensole, ci sono scatole di medicine. Davanti a Sehveil, una piccola fila di sfollati. La sua farmacia non c’è più, ha raccolto quel che restava e ora lo distribuisce a una popolazione rimasta senza ospedali.

INTORNO alla farmacia, Khan Younis è irriconoscibile. Insieme alle case e alle strade, è scomparso anche il tessuto sociale che c’era prima. Negozianti, vicini di casa, familiari. Tra Khan Younis, Deir al Balah e Rafah si è materializzato una sorta di triangolo della fuga senza senso: si va su e giù, su carretti tirati dagli asini, auto e camioncini con i materassi sopra il tettuccio.

Ahmed Abu al Enein è al suo quinto sfollamento, a Middle East Eye racconta di essere rimasto a Rafah per «quattro miserabili mesi, con pochi aiuti e niente acqua corrente». Viveva a Jabaliya, ora è risalito verso il centro, verso Deir al-Balah. Ha poggiato la tenda, dice, lungo il mare.

Come si scelga il prossimo posto dove andare, da qui, non lo si può comprendere. Sembra una roulette russa. Rafah non va più bene sebbene sia lì che agenzie Onu e ong si siano riorganizzate per la distribuzione degli aiuti e abbiano messo in piedi cliniche da campo e cucine.

Con l’intensificarsi dell’operazione israeliana, Rafah si è svuotata dopo mesi a fare da città-rifugio a quasi l’intera popolazione della Striscia. Ma al centro e al nord non va meglio: da due settimane Jabaliya, Nuseirat, Deir al-Balah sono sotto feroci bombardamenti e nuove incursioni via terra dell’esercito israeliano.

A DEIR AL BALAH, Abu al Enein ha scoperto che l’ospedale Martiri di Al-Aqsa, è sì ancora aperto, ma di fatto è un guscio vuoto. Manca carburante, mancano le medicine, non sono in grado di fare test medici e analisi. Ieri la direzione ha fatto sapere che sta finendo anche il poco carburante che era riuscito ad arrivare, altri due giorni e terminerà. Abu al Eneim se lo chiede: «Cosa dovremmo fare se veniamo feriti? Dopo aver visto le condizioni dell’ospedale ho pregato Dio: se ci colpiscono, meglio morire subito che soffrire e morire lentamente perché non ci sono le cure».

Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, tra ottobre e inizio aprile a Gaza si sono registrati almeno 644mila casi di infezioni polmonari, 345mila di diarrea, 83mila di scabbia, tra le altre. In tutta Gaza gli ospedali ancora funzionanti sono quattro. È qui che arrivano i feriti dei bombardamenti che stanno colpendo da nord a sud. Ieri il campo profughi di Jabaliya è stato teatro di una nuova violenta offensiva, nell’area di al-Faluja.

Secondo quanto riportato dalla giornalista Hind Khoudary di al Jazeera, un raid ha centrato la scuola Al-Nazla, casa per centinaia di sfollati. Ci sarebbero dieci uccisi e 17 feriti, anche bambini, «stavano giocando nel cortile e all’improvviso ci hanno bombardato», racconta una donna. «L’intera popolazione del campo è stata spinta verso ovest, ma tanti sono intrappolati nei centri di evacuazione circondati dalle truppe israeliane – riporta il giornalista Hani Mahmoud – Nel campo non sono arrivati cibo e acqua per 17 giorni».

Vittime anche a Beit Hanoun nel bombardamento di una casa (dieci uccisi, tra cui cinque bambini) e a Wadi Gaza (tre uccisi). I dati aggiornati a ieri parlano di 35.900 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, senza contare almeno 10mila dispersi e un numero imprecisato di morti per fame e malattie.

E MENTRE quattro pezzi del porto temporaneo statunitense (quello che, secondo Washington, dovrebbe sostituire i valichi di terra che Israele tiene chiusi) si sono staccati e hanno navigato in mare fino ad arrivare davanti alla costa di Ashdod, ieri l’Onu ha di nuovo fatto appello all’apertura di Rafah e Kerem Shalom, così come da ordine della Corte internazionale di Giustizia.
A 24 ore dopo dalla nuova decisione, non si intravedono cambiamenti. Rafah è sotto le bombe e ieri le truppe israeliane si sono avvicinate al Kuwaiti Hospital, facendo temere l’ennesimo assedio di una clinica dopo quelli allo Shifa, al Nasser, all’al-Awda che hanno lasciato dietro di sé fosse comuni con centinaia di corpi.

Tel Aviv ha già detto che non intende fermarsi, Aja o meno, ed è difficile che lo faccia senza un intervento esterno. Sanzioni, embargo, qualcosa di più concreto delle critiche a parole espresse dagli alleati (ieri la Germania ha di nuovo chiesto a Israele di non proseguire nell’attacco contro Rafah, e lo stesso ha fatto l’Unione europea, mentre Londra se l’è presa con la Corte).

UN PICCOLO EFFETTO della doppia sentenza di Corte penale e Corte internazionale, però, c’è stato: Israele, riportava ieri l’Afp, è intenzionato a riaprire il negoziato «questa settimana» per giungere a uno scambio di prigionieri e a una tregua. La volontà è stata espressa a Parigi, dopo un incontro con gli Stati uniti e il Qatar.

Secondo la stampa israeliana, nella capitale francese il capo del Mossad, David Barnea, si è accordato con il direttore della Cia Burns e il primo ministro qatariota per rilanciare il dialogo «sulla base delle nuove proposte promosse dai mediatori, Egitto e Qatar, con una partecipazione attiva degli stati uniti», dice una fonte israeliana alla Reuters.