La Vauda, in questa stagione, è come un serpente a colori. Dal giallo al verde fino alle macchie viola dell’erica, che si fa spazio tra stagni e prati. È una striscia di campagna, un altipiano quasi selvaggio a Nord di Torino, che si appoggia alle pendici delle Valli di Lanzo e si estende nel Canavese, toccando piccoli borghi come Front, Lombardore, San Carlo, San Francesco al Campo e Rivarossa. Il suo nome ha un che di evocativo e deriva dal celtico Wald, foresta, come descritto nelle pagine di Bernardo Chiara, scrittore vissuto a cavallo tra i due secoli scorsi: «La vista di quella landa brulla e selvaggia mi affascinava e mi trasportava in un mondo fantastico».

Una riserva naturale di 2.600 ettari, poco meno della metà (circa 1.200) di proprietà del demanio militare (poligono di tiro, ora praticamente in disuso). Che qui ha una lunga storia, di memoria addirittura sabauda. Solo il rombo degli aerei – l’aeroporto di Caselle è a pochi passi – e il fragore dei proiettili intervallavano i ritmi di una vita lenta, agricola, disegnata da strade bianche come il sale e campi indistinti, che ricordano le parole di Luigi Tenco. Ma da alcuni mesi sulla Vauda, un territorio unico per biodiversità, si sono allungate le mani del business del fotovoltaico, pronto a mangiare chilometri di suolo non antropizzato.

Qui, su 72 ettari (circa 150 campi da calcio se si contano le opere di servizio) 500 mila pannelli fotovoltaici, prodotti in Cina, potrebbero deturpare il sito di interesse comunitario (Sic, istituito dalla Regione nel 1993). E’ il progetto di mega-impianto presentato dalla Belectric, multinazionale tedesca, appoggiata dal ministero della Difesa, che attraverso la società Difesa Servizi Spa è intenzionata a «valorizzare» i terreni.

L’incrocio tra le strade provinciali che dividono la Vauda, a pochi passi dalla borgata Centro, è stato uno dei punti di partenza per la marcia del 21 aprile contro l’ecomostro. Seicento persone, nonostante la pioggia. Lì ci ritroviamo, a quasi tre mesi di distanza, con il movimento, che ci aspetta con carte, mappe, esposti e voglia di raccontare. Un piccolo mondo eterogeneo in lotta per salvare la riserva. Ci sono gli ambientalisti di Ata (Associazione per tutela ambiente) e Pro Natura, gli Amici del Parco, i 5 Stelle, i No Tav di Lanzo, amministratori locali di diverso colore politico, cittadini e qualche agricoltore. Intorno l’erba è alta, i contadini che la falciavano, pagando regolare quota al ministero della Difesa, per foraggiare gli animali non possono più farlo. Un’ordinanza del comune di Lombardore, l’unico favorevole all’opera, e un’altra della Difesa vietano l’accesso ai terreni per una presunta contaminazione del suolo. È, inoltre, prevista una recinzione di 18 chilometri. «Una ritorsione nei confronti della mobilitazione popolare – denunciano in coro -, l’appello sul sito di Salviamo il paesaggio ha raccolto già 4mila firme. In realtà gli elementi negativi rilevati dalle analisi dipenderebbero dal fondo tipico di questo territorio».

Nei prossimi giorni è atteso il parere di compatibilità ambientale della Provincia di Torino, che con il presidente Antonio Saitta (Pd) si è sempre dichiarata contraria. «Il progetto del mega parco fotovoltaico – racconta Enzo Lorenzetti, consigliere di minoranza a Lombardore – spuntò nell’aprile 2012. Chiacchiere di corridoio. La prima stesura, intesa come bonifica bellica, insisteva solamente sul territorio di Lombardore, ma fu stoppata dai tecnici della Regione. A febbraio è uscito un secondo progetto delle stesse dimensioni, ma smembrato in quattro sottocampi che coinvolgono anche i comuni di San Francesco al Campo e San Carlo Canavese con potenza innalzata a 45 megawatt. Questo ha superato il parere tecnico regionale».

Caterina Calza, Ata e Salviamo il paesaggio, è una delle animatrici della protesta: «Lo spezzettamento aumenta l’impatto. Cresceranno i collegamenti tra i vari siti e verrà distrutta la microeconomia agricola, senza creare posti di lavoro. Sono troppe le deroghe date al demanio militare, e in un’area protetta». Si tratta di un luogo non idoneo se si fa riferimento alle varie deliberazioni regionali, che escludono aree Sic dall’installazione di impianti fotovoltaici a terra. Ma Difesa Servizi Spa ritiene l’intervento d’interesse pubblico, in quanto correlato alle attività istituzionali del ministero. «Un’attività di tipo industriale non ha nulla a che fare con il ruolo istituzionale» sbotta un gruppo di cittadini di San Francesco. «Non potevano farle sui tetti di caserme smantellate?», ribadisce Luciano Beltrame.

Michele D’Elia, Ata Ciriè, ha studiato gli interventi di Difesa Servizi Spa: «L’impianto della Vauda non ha un valore solo locale, ma nazionale. Potrebbe essere un apripista. Difesa Servizi Spa era nata sulla falsariga di Protezione Civile Spa, per valorizzare e gestire gli immobili militari, costruendoci magari impianti fotovoltaici. Il ministero prenderebbe l’affitto dei terreni, ma i lauti incentivi, pagati dai cittadini italiani, finirebbero all’azienda tedesca».

Il lavoro è stato affidato alla Belectric che in Italia lo gestisce tramite Beletrict Italia srl, con capitale sociale di 10 mila euro, che a sua volta per l’esecuzione si appoggia su Ciriè Centrale Pv Sas con capitale di 1000 euro. «Altra anomalia» dicono i cittadini. «All’interno di una riserva naturalistica vogliono costruire un’area industriale» si sfoga Glauco Fontanone, M5S di Ciriè. «Aprirà la porta a ulteriori speculazioni. Invece si dovrebbero trovare strategie di valorizzazione del paesaggio, per fruire meglio la bellezza della Vauda» suggerisce Roberto Rossato, M5S. «Morirebbe una zona agricola d’eccellenza per i prodotti caseari» sottolinea Alfredo Lodesani.

«Un habitat unico» spiega Pierfelice Ronco, mostrando un libro di Bernardo Chiara. Danilo Severini, Amici del parco, ricorda come «il cantiere porterà l’inquinamento che non c’è e inciderà su flora e fauna. Non c’è nessuna esigenza energetica e nessuna compensazione potrà mai ripagare una violenza simile». La mobilitazione è nata dal basso. «Se non ci fosse stata una cittadinanza attiva, hai voglia le amministrazioni…» lamenta Roberto Spiccia. «Mi auguro che questa esperienza – conclude Caterina Calza – sia la palestra per unire le proteste ed emanciparci dal rischio nimby. Abbiamo tante piccole Tav».