È Isabelle Huppert ad aprire Venezia. Protagonista del film Promises, l’attrice è il gran richiamo del film inaugurale a ‘Orizzonti’, seconda prova di Thomas Kruithof (La meccanica delle ombre), scritto dal regista con Jean-Baptiste Delafon (sceneggiatore della serie politica di Canal+ Baron Noir). In bilico tra missione civile e risvegliata ambizione politica, tuttora impavida sindaca (a fine mandato) dei sobborghi parigini, afflitti da disuguaglianze, disoccupazione e povertà, la Huppert vacilla, dentro le velenose strategie di potere, tra integrità politica e promesse elettorali. Promises non è che una delle mille promesse di stagione della Huppert, più che mai attiva a 68 anni e sempre in bilico tra un aereo in arrivo e il successivo in partenza.

Il 9 settembre volerà infatti negli USA, per rimbalzare da lì in Giappone fino a metà novembre : prima, le riprese d’un film, in quell’Estremo Oriente dove ormai è di casa, poi, trovandosi ‘nei paraggi’, l’impegno di presidente di giuria al Festival di Tokyo. Ulteriore rimbalzo, a inizio dicembre, dal Giappone al Portogallo, per la ripresa, in teatro, della pièce Il giardino dei ciliegi, che ha interpretato con il consueto successo al Festival d’Avignon lo scorso luglio, nella Cour d’honneur du Palais des Papes. Dunque, prima di gennaio, niente Isabelle in Italia se non in effigie cinematografica, grazie, forse, a L’ombra di Caravaggio che Michele Placido ha girato a Napoli e a altri due film : oltre a Promises, distribuito da Notorious Pictures, La daronne (La Padrina), già in anteprima ai Rdv di Roma e al Biografilm di Bologna, in uscita a ottobre subito dopo la probabile anteprima al Festival di Lucca. L’intervista-ritratto che segue è anch’essa obbligatoriamente fatta di rimbalzi, mosaico di preziosi momenti presi al volo, tra un Festival e l’altro, dall’FFM di Montreal al Forum di autori e produttori organizzato da Suzel Pietri a Barcellona, alla cerimonia in cui è stata consacrata dai Prix Lumières al Théâtre de la Madeleine a Parigi.

Sempre in giro per il mondo da una scena a un set, da un regista all’altro. Bulimia d’artista? Smania di bruciare le tappe?
Bulimica … non credo: vorace, se mai. E lungi da me l’idea di voler bruciare le tappe: non c’è stata mai nessuna strategia nella mia carriera. Sa, girare film è un po’ come affrontare una partita di calcio o di tennis. Campo delimitato, regole precise, una struttura da rispettare. E la potenza del rituale che si ripete immutabile da un film all’altro, da un Paese all’altro. Se mi capita di partire ogni giorno alle 5 del mattino per interpretare una professoressa di matematica com’è successo in Tip Top di Serge Bozon, io sono felice: che favola, e ho il privilegio di farne l’esperienza.

In un’esistenza così piena come la sua, c’è spazio per il vuoto?
Ma recitare non è sperimentare il vuoto, al contrario: ci si impasta più volte al giorno in una materia che non si può immaginare più densa. Recitare significa anche, spesso, essere soli, ma è una solitudine protetta, per nulla subìta. Mi piace immaginare che potrei essere attrice anche restando chiusa in casa: sognarlo, e basta. Come le sorelle Brontë, che hanno scritto le loro storie più straordinare senza metter piede fuori del loro presbiterio.

Attrice: è una vita che si può augurare alla propria figlia? Nel caso, a Lolita Chammah?
La vita d’attrice è insieme esaltante e angosciosa. In quanto madre, mi sento orgogliosa perché è in ogni caso uno dei più bei mestieri al mondo. Ma, nello stesso tempo, sono un po’ preoccupata, perché so che è anche un mestiere fatto di attese, di delusioni, di cadute. Occorre una gran tenacia per affrontare e superare tutto questo, ogni volta. Tante volte. E per sopravvivervi. Da fuori, si ha tendenza a non vederne che le paillettes, ma da dentro…

Tormenti, ferite: che cosa la spinge sempre più verso ruoli a doppio taglio come «Elle» o, adesso, «La Daronne» o «Promises»?
È mia convinzione che un’attrice sullo schermo abbia una doppia vita. O incarna un suo fantasma. Oppure fa affiorare una parte più vera di sé. Nel mio caso, tendo a incarnare piuttosto i miei fantasmi, personaggi che posso immaginare nei miei sogni: o nei miei incubi.

Non si ferma un attimo: se non è su un set, è su un palcoscenico.
L’idea della sparizione, dell’anonimato mi ha sempre attratta, anche se non sono né Banksy né Elena Ferrante. Sono più invisibile di altre attrici e, soprattutto, di altri attori. È più maschile che femminile voler essere riconosciuti e far di tutto per esserlo! Il cinema, in questo, è unico: ti fa sparire cinque giorni per le riprese di In Another Country di Hong Sang-soo o sette mesi per I cancelli del cielo di Cimino. Io stessa, quando incrocio qualcuno che ho visto solo su grande schermo, ho voglia di sapere quel che non conosco o non riconosco di lui. È sempre affascinante quel che un volto proietta sullo schermo o nella vita. Basta leggere quanto Cechov scrive sul volto nello Zio Vanja: stupendo.

Cechov, appunto: è la sua prima volta in teatro. Come mai?
L’idea non s’è mai presentata ai registi con cui cui ho lavorato, da Bob Wilson a Luc Bondy. Ma è un autore che mi è sempre stato a cuore. Mi ha conquistata la sua leggerezza che si sposa in modo così geniale alla sua malinconia. Ne ho parlato con Tiago Rodriguez, il regista portoghese di cui ho adorato tutti gli spettacoli visti in Francia. E così è nato il mio Cechov di Avignone.

Da attrice a star: dov’è la magia?
Nel mio caso, è l’accumulo di quel che ho fatto, con tanti film che la gente non ha visto! Preminger, Tavernier, Goretta, Jacquot, Pialat, Chabrol, Godard, Ferreri, Ozon, i Taviani, Bellocchio, Verhoeven, Haneke … tutti registi da capogiro. Senza contare quelli di teatro, che mi han portato in tournée in tutto il globo terrestre. E tuttavia non mi sento un’attrice popolare: sono, allo stesso tempo, a fuoco e sfocata, ai margini. Meglio così: questa sensazione mi ha sempre spinto all’ignoto e ai viaggi.

È un mestiere che oggi sceglierebbe di nuovo?
Certamente ! Anche se non mi sembra di averlo mai scelto. Forse non si sceglie mai veramente di essere attrice. Arriva e ti si impone. Perché, più che un mestiere, è un modo d’essere. È impegnare a fondo la propria persona. Molto presto ho sentito che è lì che avrei potuto riunire di colpo qualità e incapacità, l’intero mio essere. Attrice significa trasformare in eccellenza quel che non lo è: la fragilità in forza, la timidezza in sicurezza. E fare di tutto una bella corazza.