Cultura

Le miti radici della liberazione

Le miti radici della liberazioneIkon images Ap

Narrativa Un brano dal romanzo «La quarta compagna», in libreria per Fandango (pp. 176, euro 16), ispirato a una storia vera. La vita di Ada, operaia comunista, imprigionata e torturata dal regime, alle origini dell’antifascismo. «Ebbi la certezza di essere una goccia di un mare vasto e potente. I miei compagni avevano gettato le basi della Resistenza, e io ero parte di essa, custode di quel fiore fragile ma bellissimo»

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 26 aprile 2024

Per me la giustizia non è un’idea astratta che si impara sui libri, ma tutto il contrario. È un dolore in corpo che comincia a farsi sentire nello stomaco e che deve uscire fuori, dal quale si può guarire solo agendo, urlando, lottando e opponendosi con tutta la forza possibile. Sì, un senso di Giustizia che non mi ha più lasciata, neanche nei momenti più bui. Avevo la convinzione di essere dal lato giusto della storia. Mi dicevo: «Ada sei solo una piccola operaia, ma stai partecipando a qualcosa di grande, e per questa Idea vale la pena combattere, a qualunque costo. Nient’altro importa ormai».

TRA LE ALTRE COSE nella casa di Angera, un paesino sul Lago Maggiore, dovevo assistere Togliatti, convalescente da una lunga malattia, che stava con il direttivo. Era un uomo difficile da decifrare. Passava le giornate curvo su una scrivania a studiare, a prendere appunti, a fare strani conti. Parlava poco, ascoltava gli altri a lungo e in silenzio, per poi sovvertire tutto in poche battute alle quali non ribatteva quasi mai nessuno. «Ormai quel che è fatto e fatto. Non siamo qui per cospargerci il capo di cenere ma per reagire. Bisogna soprattutto ritornare alle fabbriche, agli operai, alla gente del popolo; sapere cosa pensano, cosa vogliono e coinvolgerli nella lotta clandestina. Compagni parliamo di numeri, possiamo contare su circa 25mila iscritti in tutto il paese. Pensiamo a come sopravvivere, a come organizzarci sul territorio e implementare il Soccorso Rosso, a come fare uscire i nostri giornali, aiutare a espatriare chi deve. Queste sono le cose che contano ora, niente più». Era convinto che solo grazie ai veri proletari avremmo potuto mantenere vivo il Partito.

La quarta compagna

Passeggiavamo tutti i pomeriggi nel grande giardino della villa. Mi chiedeva di me, della mia famiglia, del mio lavoro di operaia e degli scioperi, di quando avevo cercato di creare i consigli di fabbrica. Mi spiegava anche cosa ci attendeva. Anni duri, in cui solo la cieca fede nella nostra causa ci avrebbe permesso di andare avanti. Mi diceva anche come mi sarei dovuta comportare in caso di arresto, perché prima o poi saremmo tutti finiti in carcere, inutile illudersi. «Meno parli e meglio è, sospetta di tutto e tutti e dai solo informazioni vaghe e generiche. Se conoscessero le risposte alle loro domande, non avrebbero bisogno di portele, capisci? Quindi ti faranno sempre credere di sapere tutto quando in realtà non sanno nulla. Non tradire mai i compagni, li puoi nominare solo se sei certa che anche loro sono stati arrestati, e in ogni caso parla solo dei pesci piccoli, non svelare mai l’identità o il ruolo di chi sta sopra di te, non permettere loro di risalire a tutta la rete».

E POI C’ERA LEI. Camilla Ravera, per anni avevo letto i suoi articoli, seguito i suoi passi, ma conoscerla, vederla in carne e ossa, era un’altra cosa. Mai ho visto una donna tanto forte in una corporatura così gracile. Amava prendersi cura delle piante del giardino e, quando la vedevo piegata sui fiori, mi sembrava che si sarebbe spezzata da un momento all’altro. Il suo chiodo fisso era quello di «ricostruire i quadri del partito, formare una rete di compagni e compagne in tutta Italia e all’estero, trovare un modo sicuro di comunicare». Era stata la prima donna a scrivere sull’Ordine Nuovo, aveva difeso le mondine, le casalinghe, voleva che fosse riconosciuto il lavoro di madre come servizio a tutta la società; la chiamava la «funzione materna», che doveva creare condizioni di differenza ma non di inferiorità nei riguardi delle donne che lavorano o vogliono lavorare. Mi diceva: «Ada la nostra è una scelta di vita. Per noi è ancora più vero che per gli uomini, siamo delle rivoluzionarie professionali, capisci? Non esiste nessuna vita privata, sarebbe una debolezza, una distrazione pericolosa. Io ci ho rinunciato da anni ormai. Dobbiamo vivere solo ed esclusivamente per la nostra causa. In questo lavoro clandestino siamo in poche donne. Ci richiede distacco dalla famiglia, rotture talvolta definitive. Assumersi questo impegno significa per noi avere convinzioni fermissime, ideali profondi. Dobbiamo essere pronte ad accettare le condizioni e le conseguenze delle nostre scelte e dei nostri compiti».

ED ERA VERO, anche tra compagni, pur essendo nella cerchia ristretta dei dirigenti del Partito, Camilla, o «Silvia», doveva lottare per esporre il proprio pensiero, per essere ascoltata doveva parlare meglio degli altri. I suoi amici, i suoi compagni di lotta, la interrompevano di continuo in modo accondiscendente, le spiegavano concetti che lei padroneggiava meglio di loro, riformulando i pensieri che aveva elaborato lei, facendoli passare per propri senza mai darle credito. Camilla Ravera non perdeva mai la calma, mai l’ho sentita alzare la voce o spazientirsi davanti a tanta prevaricazione. I suoi nervi erano saldi e in modo pacato, ma fermissimo, teneva il punto, non mollava mai e riprendeva il filo del suo ragionamento interrotto fino a far valere le sue idee. Era lei la più intelligente, la più instancabile, la combattente più risoluta. Una forza gentile che non si concedeva mai un minuto di svago. Si era imposta una disciplina ferrea su tutto: la sveglia alle cinque, il modo di vestire dimesso per non essere accusata di civetteria, lo studio quotidiano, l’alimentazione frugale. Ogni momento della sua esistenza era volto a dimostrare agli altri che lei meritava di stare lì con loro. Come se questo venisse perennemente messo in discussione e non fosse mai acquisito per più di un istante.

LA NOSTRA STRANA CONVIVENZA sul Lago Maggiore durò solo pochi mesi. Una mattina, mentre compravo il pane, vidi due donne che mi guardavano in modo sospettoso e parlavano a bassa voce, mi sembrò di sentire la parola «sovversivi». Il giorno seguente, il cane che avevamo adottato morse un passante, vennero i Carabinieri a farci domande, anche loro sembravano sospettosi del nostro modo di vivere, del fatto che ci trovassimo lì, nonostante i documenti falsi e le storie di copertura. I compagni decisero che era giunto il momento di sbaraccare tutto. Quella casa non era più sicura per noi. Preparammo le valigie durante la notte e all’alba ce ne andammo ognuno per la propria strada. Credo che fu nel viaggio di ritorno per Milano, che ebbi per la prima volta la certezza di essere una goccia di un mare vasto e potentissimo.

In quei pochi mesi i miei compagni avevano gettato le basi della Resistenza, e io, seppur goccia minuscola, ero in qualche modo parte di essa, custode di quel fiore fragile ma bellissimo. Avevo vissuto con persone che oltre venti anni più tardi avrebbero fondato la Repubblica italiana, influenzato la storia democratica del nostro paese. Ravera sarebbe diventata la prima senatrice donna in Italia. Terracini e Togliatti abili politici, dal pragmatismo talvolta discutibile. Io invece non sono diventata nessuno, ora vivo come una vecchietta qualsiasi in un paesino di provincia, guardo la televisione e faccio i cruciverba. Eppure, ancora oggi sono una di loro. Io sono la quarta compagna.

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