È un caldissimo giorno di agosto 1971 quando la squadra inglese di calcio femminile si prepara a scendere in campo per disputare un’importante partita della Coppa del mondo nello stadio Atzeca di Città del Messico.

Le giocatrici britanniche sono giovanissime (solo due hanno più di 20 anni) e non dovrebbero essere lì perché la Federazione calcio ha proibito loro di partecipare. Sono a Città del Messico in versione non ufficiale e grazie alla decisione del loro manager, Harry Batt, che ha scelto di accompagnarle disobbedendo al diktat della FA.

Fino a quel momento, le calciatrici hanno giocato solo nei parchi e alla presenza di pochi spettatori perché il calcio è vietato alle donne. Non era sempre stato così. Durante e subito dopo la prima guerra mondiale, quando gli uomini erano al fronte, il calcio femminile era non solo ammesso, soprattutto per partite a scopo benefico, ma anche seguito.

Chi pensava che sarebbe stato l’inizio di un cambiamento si sbagliava. Nel 1921 la FA lo proibisce dichiarando «che è uno sport abbastanza inadatto alle donne». Insomma, siamo nella scia del «siete capaci di fare tutto finché ci fa comodo, ma adesso tornate a culle e fornelli che a calciare ci pensiamo noi». Il bando durerà quasi 50 anni e comunque, una volta terminato, non sarà facile per le donne farsi accettare come tiratrici di un pallone. Per poter giocare in una squadra locale, una di loro, Gill Sayel, doveva fingersi ragazzo e farsi chiamare Billy.

Abituate a tanto demerito, immaginate la loro sorpresa quando arrivano a Città del Messico e trovano ad aspettarle una selva di fotografi, poliziotti in moto che le scortano in albergo, uno stadio con 90mila persone che fra trombe, striscioni e canti le sostengono con passione assoluta, fan che chiedono loro autografi, giornalisti che le vogliono intervistare. Tanto successo è uno dei più riusciti boomerang della storia del calcio. La Fifa ha cercato di bloccare la Coppa del mondo, ma gli organizzatori se ne infischiano. Cercano stadi non controllati dalla federazione calcistica messicana, trovano i due più grandi che, guarda caso, sono sotto l’ala di un importante gruppo mediatico il quale, oltre a guadagnare vendendo i biglietti, registra e manda in onda tutte le partite sulla tivù messicana.

Le ragazze inglesi perdono tutte le partite (il torneo sarà vinto dalla Danimarca), colpa del caldo, dell’altitudine, del fatto di trovarsi di fronte squadre molto più allenate e attrezzate, di un tifo locale agguerrito, ma si sentono riconosciute. Quale delusione quando, tornando a casa, non solo vengono quasi ignorate, ma scoprono che non c’è nessuna voglia di dare al calcio femminile la stessa dignità di quello maschile.

Quell’esperienza viene dimenticata finché, nel 2019, la Bbc racconta la loro storia intitolandola Lost Lionessess. Da qui due registi, James Erskine e Rachel Ramsay, decidono di girare un documentario, Copa 71 che recupera i filmati girati in Messico, li monta con interviste di oggi, ritrova e riunisce tutte le atlete. Uscirà nelle sale inglesi il prossimo 8 marzo.

Manca un solo testimone diretto di quell’esperienza, Harry Batt, il manager allenatore che faceva l’autista di autobus, parlava cinque lingue, aveva combattuto nella guerra civile spagnola, credeva fermamente nel calcio femminile. Tornato dal Messico, invece di essere premiato per ciò che aveva fatto, fu radiato per sempre dal mondo del calcio. «Da allora – ha detto il figlio Keith – non fu più lo stesso». Batt è morto nel 1985. Il suo ultimo lavoro fu al chiosco degli autobus della stazione di Luton.

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