Ce ne fosse uno che la vota per come ha governato il Paese nell’ultimo anno e mezzo… e dell’idea d’Europa non ne parliamo proprio. Se si deve dar retta alla propaganda elettorale di FdI, Giorgia Meloni la votano solo in virtù dei bassi natali e sarà pur comunque meglio di un voto per il sangue blu, però mica tanto. La spot finale dei tricolori mette in fila una serie di elettori e ciascuno racconta che vota «Giorgia» perché «è una del popolo», perché «si è fatta strada partendo dal basso», perché «è una di noi e non si è montata la testa». Giochiamo la carta della popolana verace e o la va o la spacca.

COME ANDRANNO le elezioni europee nessuno lo sa e i sondaggi contano poco. Di certo però si può già dire che il finale di partita non sta andando come previsto dalla premier. Lo si percepisce a pelle. «Giorgia una di noi» stenta a ingranare la marcia, sbanda, si rifugia nell’antichissimo metodo Achille Lauro e per una che vorrebbe essere il mazzo nuovo sul tavolo verde della politica italiana è un tantinello deludente. Ieri, col massimo risalto mediatico e lo sfarzo delle grandi occasioni, al teatro Massimo di Palermo, ha firmato con il presidente della Sicilia Schifani e alla gongolante presenza del ministro Fitto l’accordo con la Sicilia che sblocca 6,8 miliardi dei Fondi coesione e sviluppo a favore dell’isola. «Un atto dovuto in forza della legge del 2023», segnala il Pd siciliano ma il senso e lo scopo dello sblocco proprio a un passo dal voto non c’è bisogno di spiegarlo essendo sin troppo evidente. Dal malloppo 5,5 miliardi andranno a finanziare 580 progetti divisi in 9 ambiti. Quasi metà della cifra, 2,5 miliardi, sarà devoluta al capitolo «Ambiente e Risorse naturali». Seconda in ordine di importanza la voce «Trasporti e Mobilità» perché, spiega la candidatissima, «il divario tra sud e nord è questione di infrastrutture». I ponti sono infrastrutture: al Ponte per antonomasia andranno infatti 1,3% miliardi, da aggiungersi ai succitati stanziamenti.

DAL RINOMATO PALCO la presidente non si limita a parlare di Sicilia. Rivendica in generale la gestione a suo parere trionfale del Pnrr: «Dicevano che non si poteva rinegoziare invece siamo i primi in Europa per progetti realizzati. Abbiamo rinegoziato per liberare 21 miliardi da destinarsi soprattutto alla crescita della nazione e 12 di questi vanno al tessuto produttivo». Pudica non parla dei tagli ai Comuni già pronti. Del resto sul particolare aveva glissato anche nella riunione della cabina di regia del Pnrr. Capitolo increscioso: meglio trattarlo più tardi, a urne chiuse. «Stiamo lavorando per attenuare l’impatto», informano sibillini dalla maggioranza. «Non ci saranno tagli», promette capitan Salvini. Ci si risente il 10 giugno.

UN PO’ SONO ESPEDIENTI e sotterfugi propri di ogni campagna elettorale ma Giorgia Meloni segna il passo anche quando si arriva a quelle che dovrebbero essere le sue carte vincenti. Sulla riforma traballa tanto da ricordare i molti «ondivaghi» per eccellenza della politica italiana. Un giorno vuole andare ai resti e giocarsi l’intera posta, come del resto è condannata a fare che le piaccia o no. Quello dopo spiega che comunque finisca il referendum lei non si sposterà di un millimetro. Anche questo, in realtà, non dipende da lei ma dalla forza delle cose, come le spiega per dolorosa esperienza personale Matteo Renzi. L’ex riformatore trombato nelle urne, anzi, prevede addirittura una riconversione della riforma in corsa, dal premierato al semipresidenzialismo. Più auspicio che ipotesi lucida.

POI C’È LA CANDIDATA alla ripresidenza Ursula von der Leyen che un giorno è un’amicona da votarsi comunque, senza ancora dirlo apertamente ma facendolo capire, e quello dopo quasi una nemica abbracciata alla sinistra. Con la quale sinistra, alla fine, la premier in Europa voterà checché ne dica oggi. E il peggio per la sua immagine coerente e tutta d’un pezzo è che lo sanno già tutti.