Rosa antico-pallido-confetto, cipria, fucsia, pink bonbon… le sfumature di rosa sono molteplici. Amato o odiato, con una punta di blu o di lilla il rosa diventa il messaggero genderless di un futuro imminente. Sabiha Çimen (Istanbul 1986, vive e lavora tra Istanbul e New York) ha scelto il rosa per la copertina del suo libro Hafiz (Red Hook Editions), vincitore del prestigioso Paris Photo/Aperture Foundation PhotoBook Award 2022. Un colore che riflette il carattere intimo di un racconto che attraverso la fotografia analogica entra nella quotidianità di ragazze che frequentano le scuole coraniche in Turchia. Indossare chador e hijab non le rende diverse dalle loro coetanee di ogni razza, religione e cultura con cui condividono sogni e desideri, amicizia e sorellanza. Dopo un passaggio a Parigi Photo, Sabiha Çimen è stata a Roma insieme al marito, il fotografo Jason Eskenazi fondatore della casa editrice Red Hook Editions, per la presentazione del libro da Officine Fotografiche. In una chiave in parte autobiografica, l’autrice scardina con delicatezza e un pizzico d’ironia gli stereotipi sulla narrazione della cultura islamica.

Il titolo del libro «Hafiz» contiene l’essenza stessa di questo progetto: sia nella grafica che nel formato richiama alla memoria un testo sacro…
«Hafiz» è il termine usato per indicare tutti i musulmani che hanno studiato i testi sacri e conoscono a memoria l’intero Corano. Per memorizzare seicento pagine possono occorrere anche tre o quattro anni, dipende dalla capacità degli studenti, ragazze e ragazzi. Richiede una dedizione totale tra disciplina, devozione e concentrazione. Ho voluto che anche la copertina del mio libro fosse come quella di un libro religioso, da cui però ho tolto i simboli religiosi per renderlo più contemporaneo. Tra gli elementi floreali della grafica ho inserito il profilo di figure femminili, invece il colore rosa dipende dal fatto che non c’è ragazza che non abbia il Corano di questo colore. Spesso è di un rosa molto più acceso e kitsch, invece io volevo qualcosa di più soft, un «teenager pink» che fosse più rappresentativo dello spirito dell’età adolescenziale.

Come è nato e si è sviluppato il progetto a lungo termine «Hafiz: Guardians of the Qur’an»con cui, proprio in questa categoria, hai vinto il secondo premio del World Press Photo 2020?
Il progetto è iniziato nel 2017 e si è concluso nel 2020. Ma in un certo senso è iniziato prima, intorno al 2016, quando ho cominciato a cercare il mio stile. Per la prima volta avevo in mano una Hasselblad di seconda mano ma non sapevo nulla del suo funzionamento. Non ho studiato fotografia, mi sono laureata in International Trade and Finance, così cercavo di scoprire il mio linguaggio visivo e, anche dal punto di vista tecnico, come usare quest’apparecchio. Per avere una varietà maggiore di soggetti e situazioni ho pensato subito ad un progetto che si sviluppasse nel tempo. Sono stata in luoghi differenti della Turchia, fotografando in sette diverse scuole da est a ovest del paese.

Come sei venuta a conoscenza di queste scuole?
È una storia che mi riguarda dal punto di vista personale. Avevo 11 o 12 anni, quando ho indossato il velo per la prima volta, insieme alla mia sorella gemella Rabia, abbiamo studiato a Istanbul in una scuola coranica. Non posso dimenticare quel periodo che è stato veramente unico e prezioso, pieno di ribellione, colorato. Eravamo seicento ragazze a vivere tutte insieme sotto lo stesso tetto! Credo che ad oggi sia stata la più grande esperienza della mia vita. Così, quando sono diventata fotografa, sono voluta tornare indietro a quella fase per scoprire me stessa. Il progetto è stato proprio una collaborazione con le ragazze che ho fotografato per cercare la Sabiha che ero. Per questo la prima scuola che ho visitato è stata quella dove avevo studiato, dopo mi sono recata in altre scuole per scoprire altre situazioni.

La fotografia a colori riflette lo stato d’animo delle ragazze che hai fotografato…
I luoghi erano molto colorati, come le persone. Probabilmente se avessi fotografato in bianco e nero non si sarebbe capito il contesto, l’essenza del sentimento e anche la fisicità (Sabiha sfoglia le pagine del libro soffermandosi sulla foto della mensa/caffetteria con le tovaglie colorate a motivi geometrici e la finestra dipinta con dei girasoli e poi in un’altra pagina quella con i palloncini colorati e la scritta Hafiz sulla parete). Ogni cosa è legata al colore. Tutto quello che ho fotografato è frutto dell’incontro casuale, non ho fatto altro che fotografare ciò che vedevo nell’ambiente.

Hai affermato di voler riconsiderare il rapporto tra la creazione di immagini e le donne nella cultura islamica. In che senso?
Generalmente le donne musulmane sono sottorappresentate nei media e spesso, quando lo sono, in una chiave da cartone animato. Anche nella stessa Istanbul sui giornali, nelle soap opera e al cinema, se c’è una donna con il velo è sempre una donna delle pulizie o comunque una donna che non ha studiato: non viene mai rappresentata come una donna di cultura, desiderabile. Ho voluto cambiare questo punto di vista e dare a queste donne la possibilità di parlare per conto proprio, rompendo anche certe regole di standardizzazione della bellezza dettata dai giornali e dalla moda. Le ragazze che ho incontrato sono molto intelligenti e, come puoi vedere nelle foto del libro, giocano con questi standard. Amo il senso di libertà che trasmettono. Anch’io ero come loro.

La decisione di frequentare le scuole coraniche viene presa dalle studentesse o dalle loro famiglie?
È lo stesso che nelle scuole laiche. Certe volte la decisione è delle ragazze, altre delle famiglie che ritengono che la scuola secolare sia meglio per loro. Spesso si tratta di scuole dove l’educazione è unicamente religiosa, ma ci sono anche quelle in cui, dalle primarie alle secondarie, si studiano altre materie. Le varianti sono molte, dipende anche dalla zona. Soprattutto nella Turchia orientale non c’è molta formazione scolastica e le ragazze di solito sono illetterate, ma ci sono anche giovani che diventano dentiste, architette o magari vanno a studiare in altri paesi. Non è affatto vero che le ragazze sono depresse, anzi c’è una certa libertà e certe volte anche un pizzico di follia, ribellione.

Nel tuo percorso un momento decisivo è stato il viaggio a Mecca che hai fatto nel 2002 con la tua famiglia. È stata in quell’occasione che hai cominciato a fotografare per la prima volta?
All’epoca ero una teenager e in Turchia alle donne musulmane era vietato indossare il velo. Perciò indossandolo non potevo andare all’università. Non potevo fare nulla ma non per questo non vivevo. Leggevo molto, cercavo altre chiavi per colmare la conoscenza senza però poter frequentare i corsi universitari. Durante quel viaggio in Arabia Saudita vidi in un negozio di apparecchi fotografici una bella macchina fotografica digitale e mi dissi che mi sarebbe piaciuto fotografare. Mio padre mi chiese cosa avessi voluto fotografare. Risposi che non lo sapevo, avrei usato la fotografia come un diario per raccontare la mia vita. Lui disse okay e mi comprò quell’apparecchio amatoriale. Quello che ho fatto è stato esprimere le mie emozioni profonde ma anche le cose più sciocche, cose che non avevano senso o, forse, magari ce l’hanno. Chissà. Oggi credo che quelle mie prime foto siano state molto importanti e anche il fatto che non conoscessi nulla di fotografia mi ha permesso di avere uno sguardo più libero. Le mie referenze sono più legate alla pittura e sono interessata a molti argomenti culturali, ma ancora oggi non so nulla di tecnica fotografica, metto semplicemente l’anima in quello che faccio.