«Cerco solo di essere libera, il più possibile. Penso che sia la cosa più importante, una delle poche ragioni per cui siamo in vita: essere liberi, almeno una volta, prima di morire un giorno». Giornalista e femminista francese, Lucie Azema ha poco più di trent’anni e dopo Libano, India e Iran, attualmente vive tra Francia e Turchia. Il punto sulla libertà, in particolare quella femminile, è al centro del suo volume Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione (Tlon, pp. 243, euro 18, traduzione di Nunzia De Palma ), tra il saggio e il pamphlet che offre anche un buon apparato bibliografico. Domani a Milano, nell’ambito di Book Pride, Lucie Azema parlerà del suo libro con Caterina Di Paolo, Florencia Di Stefano-Abichain e Laura Pezzino (ore 17.3:30, Sala Ottawa).

Il tema del viaggio si intreccia per lei con quello dello stereotipo secondo cui le donne sono state rappresentate per lungo tempo come inadeguate «all’avventura». Tuttavia, da Mary French Sheldon (che nel 1891 partì per il Kilimangiaro) a Nellie Bly (che nel 1889 aveva intrapreso il giro del mondo in 72 giorni), molte sono le citate che precedono le moderne viaggiatrici. Tra esplorazione e desiderio di libertà, che cosa accomunava le loro intenzioni?
Un desiderio di libertà radicale è ciò che più unisce queste avventuriere. Dovevano sfuggire da un matrimonio, dalla maternità e, più in generale, dalla vita domestica che il loro destino di donna prometteva loro. È anche ciò che è molto bello in questi percorsi: per la maggior parte, non c’era alcun piano, niente era pensato: solo un desiderio folle di essere libere, di andare via. Come quando c’è il fuoco e si cerca solo di fuggire, senza prendersi il tempo di riflettere sulla causa dell’incendio. E questo è anche ciò che restituisce la specificità delle viaggiatrici: quando il destino di un uomo promette loro spazi esterni, quello delle donne è limitato all’interno e alla casa. Agli uomini gli spazi infiniti, alle donne i compiti ripetitivi e gli spazi limitati. Sono proprio questi muri che le avventuriere hanno voluto far esplodere.

La misoginia di molti romanzi di avventura maschili (o resoconti di esploratori) si lega alla sessualizzazione delle terre. Una posizione colonialista in cui le donne vengono disumanizzate, come nel caso di Pierre Loti quando, alla fine dell’Ottocento, racconta le sue esperienze a Tahiti o in Giappone. Una mentalità diffusa perché, lei scrive: «Ci si appropria dei corpi come di un luogo. L’immaginario del viaggiatore è saturo dei processi di oppressione fondati su razza o classe».
Sarebbe stato impossibile affrontare la questione del sessismo nel viaggio senza quella della sessualità dei viaggiatori (e il modo in cui ne hanno parlato). La sessualità è stata una leva essenziale per la dominazione dei viaggiatori maschi sulle donne che incontravano. C’è una vera e propria feticizzazione dei corpi, nel modo in cui potrebbero usarli, così come una erotizzazione dei territori (ad esempio, la Polinesia o l’Asia orientale sono sempre state presentate come luoghi di ospitalità sessuale). Tutto il nostro immaginario occidentale del viaggio è saturato di queste visioni.

Fa riferimento al turismo sessuale presente in molti paesi ancora oggi. Anche qui l’idea è quella coloniale, e neoliberista, che si lega alla proprietà dei corpi femminili.
Il turismo sessuale, e la sua banalizzazione, dimostra fino a che punto le visioni fantastiche dei territori abbiano sopravvissuto fino a noi e siano all’origine di stupri che proseguono. Questi «flussi» si dirigono principalmente dai paesi del Nord verso quelli del Sud del mondo. Il turismo sessuale esiste da diversi secoli, ne troviamo tracce già anche nella penna di Flaubert, ma il neoliberismo moderno ha permesso al turismo di massa di essere integrato alle reti locali di prostituzione. Nell’immaginario del turista sessuale, le donne e i bambini diventano una merce di consumo come un’altra, con specificità proprie di ogni paese; e qui ritroviamo la feticizzazione. La domanda è in aumento ed è una delle sfide contemporanee.

Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach sono tra le moltissime che nomina e che hanno sfidato la mentalità del loro tempo. Hanno descritto i luoghi visti con le parole delle donne. In che cosa si distingue la storia che ci consegnano?
Nei paesi segnati da una forte segregazione sessuale, i viaggiatori non hanno accesso agli spazi femminili. Al contrario, le viaggiatrici possono avere accesso agli spazi maschili. Ciò è legato al fatto che la viaggiatrice non è completamente percepita come una donna, può sottrarsi alla sua performance di genere. In questo senso, le viaggiatrici sono coloro che ci hanno riportato i racconti più completi, hanno potuto andare ovunque. Mentre nei racconti maschili, una parte del mondo è scomparsa, e quindi una parte della storia (la questione degli harem, che ho evocato nel mio libro, è un esempio piuttosto significativo). Oltre alla questione stessa dell’uguaglianza, privilegiare solo i racconti maschili pone la questione della verità e della restituzione del reale.

Nel suo libro «L’usage du thé» (edito da Flammarion nel 2022 e in corso di traduzione per Tlon), prosegue il percorso tra viaggio e immaginario. In che modo il tè incrocia la storia del mondo?
Il tè è una pianta nata diversi millenni fa in Cina, che ha dovuto attraversare le steppe dell’Asia centrale e gli oceani per arrivare fino a noi in Europa. È una bevanda avventurosa, la cui storia è attraversata da carovane, storie di crimini, spionaggio, colonizzazione, tratta degli schiavi. È quindi una bevanda in movimento. Eppure, paradossalmente, il tè si beve in un momento di «ricentramento», di ritiro dal mondo. È questo che ho voluto esplorare nel mio nuovo libro: la grande storia attraversata dalle piccole storie intime di viaggiatrici e viaggiatori.