Entro febbraio il premier del governo di unità libico, Fayez al-Sarraj, volerà a Mosca. Ad annunciarlo, ieri, è stato il ministero degli Esteri russo ad ulteriore dimostrazione delle operazioni in corso per un ingresso in pompa magna di Mosca nella crisi della Libia. Dopo aver fatto pendere la propria bilancia verso il generale Haftar, capo dell’esercito del governo ribelle di Tobruk, il presidente Putin punta verso Tripoli. Con un’idea precisa: far sedere allo stesso tavolo i due leader e trovare una soluzione negoziata al conflitto interno.

Una situazione che potrebbe ricalcare quella siriana e che, allo stesso modo, servirebbe alla Russia per entrare in Nord Africa. Alla base sta la convinzione, dicono da Mosca, di mantenere l’unità libica estromettendo i piani Onu e italiani. Una chimera a guardare la realtà sul terreno, che l’intervento delle Nazioni Unite (che hanno nella pratica imposto l’esecutivo di unità) non ha mai saputo ottenere: due governi, due parlamentari, un ex premier – Khalifa Ghwell, capo del disciolto esecutivo islamista di Tripoli – che ogni tanto alza la testa e si inventa un golpe di poche ore, milizie sparse sul territorio al soldo di poteri ufficiali e ufficiosi.

È la frammentazione della Libia a tenere banco, una realtà in cui al-Sarraj non ha alcuna autorità se non in una parte di Tripoli e della Tripolitania, per niente pacificate ancora, visto che solo due notti fa ci sono stati violenti scontri a fuoco con morti lungo la strada tra Tripoli e la città di al Zawiya.

Ad est la Cirenaica fa una vita a parte, con in mezzo, sulla costa, i terminal petroliferi (principale ricchezza del paese) in mano ad Haftar; a sud il Fezzan dove Haftar stesso cerca di radicarsi – ancora ieri con sparatorie e liberazione di ostaggi libici a Kufra – tra autorità altre, clan tribali in conflitto tra loro, milizie armate nel 2011 e ancora attive, gruppi islamisti che gestiscono traffici d’armi e uomini dall’Africa subsahariana.

Una settimana fa era stato proprio Haftar a segnare un altro punto, scacciando da Bengasi le ultime sacche qaediste, legate ad Ansar al-Sharia e arroccate in alcuni quartieri della città. La ripresa di Bengasi, capoluogo della Cirenaica lo rafforza agli occhi russi ma anche tripolini: al-Sarraj pare ormai convinto della necessità – se vuole sopravvivere – di venire a patti con il generale ribelle e con la galassia di milizie che gli ruotano intorno. Tra queste le potenti Brigate Zintan, in prima fila nella caduta di Muammar Gheddafi: non è un caso che siano proprio loro a «detenere» il figlio del colonnello, Saif, arresti domiciliari dorati in una residenza di lusso, che più che una prigione assomiglia ad una forma di protezione. Saif sarebbe da tempo in contatto diretto con Haftar, che lo vede come il modo per reclutare i clan e i gruppi ancora fedeli alla famiglia Gheddafi e pronti ad unirsi in una eventuale grande coalizione anti-islamista.

Intorno ad Haftar ruotano anche soggetti statali stranieri: la Francia e i suoi interessi energetici, che vedono nella Cirenaica il punto di ripartenza degli affari petroliferi; l’Egitto di al-Sisi, che punta sulla crocia anti-islamista del generale; la Russia, interessata ad entrare nel Mediterraneo e già in accordi con Haftar per una base militare a Bengasi.

A Tripoli resta rintanato il governo di unità con al-Sarraj incapace di imporsi come soggetto legittimo sia agli occhi della popolazione schiacciata dalla crisi sia di fronte alle milizie tribali che non vogliono perdere il controllo dei traffici dal deserto alla costa. La scorsa settimana i media egiziani riportavano del tentativo di Russia ed Egitto di far sedere allo stesso tavolo Haftar e al-Sarraj: una via d’uscita alla crisi cooptando il primo nel governo del secondo. Una possibilità che scavalcherebbe l’Onu, l’Italia e ora anche l’Ue.