Le lamiere del capannone adibito a garage sbattono rumorosamente sul telaio del portone vibrando roche senza sosta. Oleskandr esce da una porta laterale con lo smartphone in mano per cercare campo e quando vede la nostra auto bianca sul ciglio della strada dice «mettetela dentro, se ripassa il drone ve la bombarda di sicuro». Fa un segno a Dmytro, uno spilungone in tuta da meccanico blu con una scritta sbiadita sulla schiena della quale resta solo «ucraino» e un cappello di lana verde tenuto più basso sull’occhio sinistro. Dmytro fatica a togliere il grosso chiodo infilato di traverso nella serratura del garage e quando ci riesce fa appena in tempo ad afferrare la maniglia di ferro che il portone si apre come una vela rischiando di schiantarsi su una montagna di macerie.

IN FONDO AL GARAGE C’È un carrarmato con il cannone puntato verso di noi. Un altro meccanico fa segno di entrare, in fretta, e poi aiuta Dmytro a richiudere il portone. Nella sala adiacente ci sono le munizioni in grossi involucri cilindrici sistemate a terra una di fianco all’altra. Dmytro si strofina tra le mani nere una pasta rosa e ci invita a entrare in una porta sulla quale c’è scritto «Putin fottuto». Dietro, un signore sulla sessantina in divisa da meccanico con due baffi da messicano bianchi e gli occhi inespressivi ha già sistemato un bollitore di ceramica sulla stufa a legna.

La stanza odora di legna bruciata e fumo, in una marmitta con poca acqua ci sono delle patate bollite e vicino una gallina rinsecchita, non ci sono finestre e la poca luce crea un’atmosfera intima e drammatica. Sui letti ci sono i Kalashnikov e in fondo un neon verde schermato illumina dei bauli di legno. Due militari seduti uno di fronte all’altro parlano a bassa voce e facciamo così anche noi. Aspettiamo il caffè scattando qualche foto mentre il meccanico guarda la stufa. Poi usciamo a fumare e ritroviamo Oleksandr di ritorno da un pattugliamento. «L’altro giorno» racconta, i militari russi hanno sparato a una macchina poco più avanti di qui, nei pressi di Posad-Pokrovs’ke, non hanno chiesto i documenti né niente, gli hanno solo sparato». Libera il Kalashnikov dalla cinghia e lo appoggia al muro tenendolo dalla canna, le sue mani sono talmente grosse da far sembrare la canna una cannuccia. Sopra le nostre teste il soffitto è piegato verso il basso e si intravede l’armatura di ferro, il giorno prima è stato colpito da un mortaio ma «regge bene» dicono i militari ridendo.

OLEKSANDR CI TIENE a mostrarci un video dell’attacco, tutt’intorno a dove siamo in quel momento c’erano colonne di fumo e i boati dei colpi d’artiglieria emanano suoni distorti dagli altoparlanti dello smartphone. «Aspetta», dice, e carica un altro filmato di due anziani che cantano «buon compleanno» con un bambino in braccio. È il suo ultimo figlio e ha compiuto un anno da poco, i suoceri hanno organizzato quella festicciola per il piccolo dato che anche la moglie è impegnata con l’esercito da qualche parte più a nord.

A POCHI METRI DA NOI c’è un’altra struttura con delle finestre dove alcuni uomini consumano il rancio. Qui nell’avamposto di Luch ci sono due squadre che si danno il cambio giorno e notte per presidiare questo tratto dell’autostrada M14, quella che in tempo di pace portava da Mariupol a Odessa passando per Kherson e Mykolaiv. Ora la M14 è una delle principali direttrici dell’avanzata russa verso ovest a ridosso della costa del Mar Nero. Il tratto da Mykolayiv a qui è lastricato di missili grad e altri tipi di rottami, molti dei quali carbonizzati. Ai bordi della strada le buche dell’artiglieria rompono la monotonia dei campi incolti e di quando in quando ci si imbatte in un mezzo militare bruciato e completamente nero. D’altronde, come ci aveva detto un militare al check-point in uscita dalla città, «più avanti dovete andare piano perché la strada è piena di rottami, ma io fossi in voi me ne andrei velocemente». I droni russi qui effettuano incursioni frequenti e sulla strada non c’è nessuno, né davanti né dietro. Il vento forte trascina sui campi una scia giallastra che si impenna all’improvviso per poi dissolversi nel nulla e tornare alla terra.

NELLA PIAZZOLA DI QUELLO che una volta era una specie di agriturismo ci sono dei militari, ci avviciniamo con i passaporti bene in vista per chiedere se si può proseguire verso Posad-Pokrovs’ke e un omaccione di più di un metro e novanta incrocia gli avambracci e dice «Niè», ci sono i russi. Non è un civile armato dalla guerra e non è un miliziano dei battaglioni territoriali ma un militare di professione con un equipaggiamento evidentemente più sofisticato delle altre forze che stanno combattendo per l’Ucraina in queste settimane. Mentre facciamo manovra, nella sala all’aperto che probabilmente ospitava i pranzi estivi degli avventori, si intravedono nascosti dietro una grande rete mimetica due mitragliatrici pesanti, di quelle munite di ruote e lastre di protezione per il tiratore, e un carrarmato al centro.

Dei boati improvvisi e una nube nera a breve distanza ci ricordano l’avvertimento sibillino del militare del check-point e mentre rallentiamo per controllare se non ci sia nessuno di guardia nell’avamposto di Luch vediamo un fucile che si alza dal bordo sinistro della strada. Da un fosso mimetizzato spuntano Oleksandr e il meccanico con i baffoni bianchi che ci salutano, Oleksandr sorride e alza un braccio con il pugno chiuso, l’altro si limita a fissarci.