È la Parabola dei ciechi, il quadro dipinto nel 1568 da Brueghel il Vecchio, che oggi rappresenta meglio il momento che l’Europa sta attraversando: «Sono i ciechi che guidano i ciechi, e se un cieco guida un cieco, cadono tutti nella fossa» (Mt 15, 14; Lc 6,39). Dopo le ambiguità verso una possibile alleanza con l’estrema destra della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ieri al Forum della democrazia a Copenhagen è sceso in campo Charles Michel, presidente del Consiglio (che però non ha nessuna speranza di conservare la poltrona): quello che «conta davvero sono le politiche, la sostanza», non le etichette. «Al Consiglio c’erano dubbi prima delle elezioni in alcuni stati membri, ma poi abbiamo visto che era possibile lavorare con i governi di quei paesi anche se nella coalizione c’era un partito di estrema destra». A meno di un mese dalle elezioni europee, le alte cariche della Ue hanno già digerito l’avanzata dell’estrema destra che i sondaggi rilevano. Ormai, l’unico paletto è essere chiaramente pro-Nato.

DAL 2010, L’ESTREMA destra cresce nella Ue. Quasi tutti i paesi Ue hanno consistenti forze di destra radicale populista nei parlamenti (solo Irlanda e Malta sono escluse). In due paesi, Ungheria e Italia, sono a capo del governo (in questa lista c’era fino a poco tempo fa anche la Polonia, unico paese che ha registrato un riflusso). L’estrema destra partecipa al governo in Finlandia e Slovacchia, lo appoggia in Svezia (dove è passata da meno del 2% nel 2006 a più del 20% nel 2022), in Olanda ha vinto le ultime legislative, in Austria dovrebbe uscire vittoriosa e guidare il prossimo governo dopo le elezioni di settembre. In nove stati su 27 l’estrema destra è ormai oltre il 20% (in Portogallo all’ultima elezione è arrivata al 18%) mentre i partiti della destra tradizionale progressivamente si avvicinano a posizioni più radicali.

QUESTA SITUAZIONE avrà conseguenze sul destino della Ue. Anche se la sfiducia nella Ue che unisce questi partiti non permette di oltrepassare la difesa miope degli “interessi” nazionali e di formare un blocco: malgrado le aperture di von der Leyen a parte del gruppo Ecr (in particolare Fratelli d’Italia), nella speranza di conservare la poltrona, il prossimo parlamento europeo dovrebbe mantenere la maggioranza attuale, Ppe-S&D-Renew. Sempre che l’impegno preso da Renew, S&D e Verdi venga rispettato da tutti i partiti che fanno parte di questi gruppi: non votare per un/a candidato/a alla presidenza della Commissione che apra alla cooperazione con la destra radicale.

Ma è in corso una porosità tra la destra tradizionale e le posizioni estremiste. La costruzione europea è stata una promessa di pace, di grande mercato basato sulla concorrenza non sleale, di cittadinanza comune, all’orizzonte c’era persino la speranza di un’Europa sociale. Oggi c’è la guerra alle porte e il “dolce commercio” mostra il volto della competizione internazionale che schiaccia la Ue, tra Usa e Cina.

“FRONTIERA”, “protezionismo”, “sovranità” sono ormai termini correnti, usati da tutti, sinistra compresa. È la reazione agli effetti della mondializzazione economica, alla crisi della rappresentanza politica, alla sfiducia nei partiti tradizionali percepiti come impotenti, a cui si sono aggiunti la recessione del 2008, la crisi dei rifugiati del 2015, gli attentati islamisti, l’inflazione post-Covid. La tattica è comune: dopo il flop del Brexit l’estrema destra, salvo ai margini, non difende più l’uscita dalla Ue ma pretende di cambiarla dall’interno. Cioè di svuotarla: un’Europa à la carte dove ognuno prende quello che gli fa comodo, un bancomat utile per supposti interessi nazionali a breve, dove il Green Deal diventa il nemico da abbattere. È la svolta che ha fatto il Rassemblement national in Francia, che ormai non parla più di uscire dall’euro, come faceva solo qualche anno fa Marine Le Pen. Il giovane capolista Jordan Bardella prepara l’alleanza con la destra classica, in vista delle prossime presidenziali francesi. L’avanzata dell’estrema destra ha difatti un altro effetto: trasformare le elezioni europee di giugno in una somma di 27 elezioni nazionali, dove in ogni paese il centro dello scontro politico è locale, mentre l’orizzonte europeo sfuma nel disinteresse.