Finalmente il mare è tornato tranquillo, non ci sono onde e il vento rinfresca la calura. A bordo della nave Aquarius di Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere sembra tornata la calma.

Sul ponte ci sono famiglie e bambini che chiacchierano con l’equipaggio, si pettinano, cantano canzoni. Se tutto va bene domani questa brutta avventura sarà finita e 630 naufraghi saranno in un porto sicuro.

Il loro viaggio è iniziato una settimana fa, venerdì notte, quando sono partiti ammassati su gommoni dalla Libia verso l’Europa. L’Aquarius era in mare da 24 ore per la sua 40° missione di ricerca e soccorso, da poco lasciata Catania. Il centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma (Mrcc) le ha dato le coordinate di due possibili target a est di Tripoli, in acque internazionali, avvistati da un aereo militare. Dopo 10 ore di navigazione, al tramonto, l’Aquarius avvista i gommoni e mette in mare due imbarcazioni di soccorso.

Io sono su una di queste.

Capiamo subito che la situazione è complessa. In totale sono oltre 250 persone e uno dei gommoni è visibilmente rovinato.

Durante i soccorsi cala la notte, almeno 50 persone sono in mare senza giubbini di salvataggio. Localizziamo i naufraghi grazie alle loro grida in un mare nero che inghiotte. A forza di braccia sono in salvo. Dalla nave ci danno le coordinate di due persone incoscienti, le hanno localizzate usando le termocamere. Senza, sarebbero morte.

Un elicottero della Marina italiana interviene in supporto, illuminando dal cielo la scena. L’intervento dura 5 ore. Solo dopo qualche giorno sapremo che ci sono due dispersi.

Subito dopo il nostro intervento, tre pattuglie della Guardia Costiera Italiana e una della Marina trasferiscono a bordo dell’Aquarius altre 400 persone. Abbiamo l’ok da Roma per navigare verso nord, puntando a Messina.

Fino a domenica pomeriggio questo sarebbe stato un normale intervento, se è normale avere 2 dispersi e rischiare la vita di civili e militari nelle operazioni di soccorso. Nessuno in Italia e in Europa ne avrebbe parlato. In due anni l’Aquarius ha fatto tante di queste operazioni, salvando oltre 27mila persone. Una città. Non sappiamo ancora che questa normalità sarebbe diventata un caso politico. Non sapevamo che dopo una settimana i naufraghi sarebbero rimasti ancora in mare.

Nel corso della giornata apprendiamo dai media che l’Italia ci nega l’attracco nei suoi porti. Ha chiesto a Malta, la quale rifiuta perché l’operazione è interamente coordinata dal nostro Paese. Dal Mrcc di Roma ci arriva una comunicazione ufficiale solo alle 21.30, quando abbiamo superato Malta di 27 miglia. L’ordine è di fermarci e attendere istruzioni, che arrivano sono 24 ore dopo.

Il primo giorno di stand-by passa nella perplessità dei soccorritori e nella preoccupazione dei naufraghi. Per fortuna molte delle persone soccorse sono stanche e semplicemente dormono tutto il giorno. In mare arrivano notizie contrastanti, sentiamo di sindaci italiani che ci offrono un approdo e di governi stranieri che si rimbalzano le responsabilità. Si fa strada l’ipotesi della Spagna, che è a 4 giorni di navigazione. Le previsioni meteo sono brutte, non possiamo affrontare il rischio di un trasferimento così lungo senza sbarcare parte dei nostri passeggeri. Dal Mrcc Roma riceviamo tutto il supporto necessario: il giorno successivo 500 dei nostri ospiti saranno trasferiti su una nave della Guardia Costiera e su una della Marina Italiana.

L’annuncio diventa ufficiale, sbarcheremo a Valencia. I nostri passeggeri accolgono la notizia con sollievo: l’Italia, la Spagna o Malta per loro sono indifferenti. Vogliono l’Europa, vogliono fuggire dalla Libia, non pensano ad altro.

Un ragazzo, nel timore di essere rimandato indietro, tenta il suicidio.

Noi soccorritori sappiamo cosa hanno vissuto in Libia. Ce lo raccontano le testimonianze raccolte in questi anni e lo vediamo nei segni delle torture fisiche e psicologiche a cui sono stati sottoposti. Le cicatrici, le bruciature, le violenze sessuali anche verso i maschi. Le famiglie separate, i ricatti, le estorsioni di denaro. La riduzione in schiavitù, la compravendita di esseri umani. Tutto questo a un’ora di aereo da Roma.

Nei giorni successivi navighiamo sottocosta passando accanto a Sicilia, Sardegna, Corsica, isole Baleari. I passeggeri ci chiedono continuamente quale sarà la loro terra, la loro destinazione. Tutta la terra che avvistiamo non ci vuole o non ci può ricevere. Secondo il diritto umanitario e quello della navigazione i naufraghi dovrebbero poter sbarcare nel porto sicuro più vicino.

Sicuro nel senso di assenza di persecuzioni e violenze. Vicino nel senso di ore di navigazione.

Una settimana di navigazione verso la Spagna non sarà mai la soluzione a queste emergenze. Il senso comune dei cittadini che si sentono invasi e che vorrebbero una ripartizione dei migranti si scontra con il fatto che trasferimenti così lunghi neutralizzano il dispositivo di soccorso in mare.

Quello che sta succedendo in mare è come se un’ambulanza che interviene a Firenze portasse i suoi pazienti a Lisbona.

Le Ong, e non solo Sos Mediterranee, sono nate in reazione alla chiusura del programma Mare Nostrum del 2011, che è stato un dispositivo efficace di ricerca e soccorso in mare. I volontari, i soccorritori e i donatori che ci permettono di continuare le missioni stanno mettendo una toppa in un sistema di soccorso che è insufficiente.

Le persone che abbiamo a bordo non sono consapevoli dell’attenzione che le sta circondando. Scappano da centri di detenzione e non interessa loro la politica europea o i cambi di governo. Vanno dove posso andare. Progettano di arrivare in Francia, in Inghilterra o in Belgio, ovunque ci sia una comunità disposta ad accoglierli. Passano i giorni sull’Aquarius riposandosi quando il mare mosso non li costringe a vomitare fuoribordo. Piano piano prendono sicurezza e confidenza con gli operatori. Sono abituati a ricevere ordini dai loro carcerieri e ci vuole del tempo per conquistare la loro fiducia. Giorno dopo giorno si inseriscono nella vita a bordo, collaborano con i soccorritori per fare le pulizie e distribuire il cibo. Prendono l’iniziativa e si improvvisano parrucchieri o baby-sitter. Un pastore nigeriano tiene messe sul ponte di poppa, colorate e piene di canti. Nei suoi sermoni ci sono citazioni bibliche sulla liberazione, sulla prigionia, sulla speranza. Tiene vivo lo spirito e apre visioni del futuro. Anche un ateo come il sottoscritto si ferma a sentirlo, perché parla di uomini e di giustizia.

Durante il viaggio il personale medico di Medici Senza Frontiere non ha pause, in pochi giorni fa quasi 200 consultazioni: il problema più comune sono le ustioni da carburante, la disidratazione, le ferite da tortura, le emergenze psicologiche. Cuciono, disinfettano e cercano di regalare un conforto che spesso arriva alla sera, quando sul ponte compare una chitarra o una fisarmonica e con loro il meccanismo magico del raccontarsi storie e canzoni.

Mentre il convoglio Aquarius-Marina-Guardia Costiera si fa strada verso la Spagna gli operatori si chiedono quale sarà il futuro dei passeggeri e del soccorso in mare. Ci sentiamo come se fossimo a un punto di svolta. Tutto può precipitare o risorgere. La storia e il tempo ci daranno ragione.