Donna, africana, artista visuale e performer, Valérie Oka (Abidjan 1967, vive e lavora a Abidjan) è tra le artiste selezionati da Massimo Scaringella, curatore del padiglione della Costa d’Avorio (The Open Shadows of Memory).
In dialogo con le opere di Dükü, Leki Dago e Yanrunan, Oka presenta la nuova serie Heritage (eredità) in cui il processo creativo, come è lei stessa ad affermare, prende forma «offre un’identità riabilitata nella consapevolezza di spazio e tempo». Una combinazione di disegno, tecnologia digitale e realtà virtuale che include la programmazione neuro linguistica. «Queste opere, come tracce indelebili, sono la manifestazione di un patrimonio ancestrale amputato della sua simbologia e della sua essenza per essere trasformato, con l’anima intrappolata, in oggetto decorativo. Gli esploratori colonizzatori consideravano gli africani dei selvaggi ignoranti dotati di scarsa intelligenza. Portarono via le loro maschere, sculture, statuette, oggetti di uso quotidiano in cui concetto, stile ed energie spirituali erano fuse in un tutt’uno, sparpagliandole per il mondo. La forza del loro essere è stata occultata per essere rinchiusa nei musei consacrati al titolo di arte primitiva, oggi definita arte primaria. Oggetti che catturavano ed emettevano energie. Nella serie Heritage intendo esprimere proprio quelle energie fluttuanti in risonanza con gli spiriti e le leggi naturali che si trasformano in emozioni, onde, pensieri, materie e apparizioni».

Cosa significa essere un’artista femminista in Africa Occidentale?
In primo luogo è importante sottolineare che il femminismo non ha la stessa valenza in Africa e in Occidente. In generale, il femminismo africano lotta per l’emancipazione della donna, mentre quello occidentale rivendica l’uguaglianza (o la differenza di genere) della donna nei confronti dell’uomo. Non si tratta della stessa questione. Infatti, il termine femminismo, oggi sfruttato fino all’estremo, sottintende un cospicuo numero di stereotipi, poiché è diventato una sorta di battaglia della donna contro l’uomo. Personalmente non mi sento compresa in questo tipo di femminismo, io cerco l’uguaglianza. Penso che sia fondamentale la conquista dell’autonomia, la una maggiore libertà d’azion e,economicamente e intellettualmente, conoscere meglio i propri diritti per vivere pienamente la condizione di donna. Per quanto riguarda il ruolo dell’artista donna accade la medesima cosa in tutti i paesi del mondo: è nettamente sotto rappresentata in qualsiasi settore creativo. Ciò nonostante, l’evoluzione è in corso, in quest’Africa in mutazione. A dispetto delle pressioni sociali, la nuova generazione di artiste ottiene sempre più il diritto a essere quello che ognuna ha voglia di essere. Per quanto mi riguarda, assumo pienamente tutte le caratteristiche e gli stereotipi che derivano dall’«identità» di artista, quindi donna dal carattere forte, libera nel pensiero, nelle sue parole e azioni, attivista, ribelle, bohémienne. Sono una persona che sfugge al controllo di un sistema costrittivo. Ho la profonda convinzione di avere il diritto e il dovere di essere me stessa, poco importa lo sguardo o l’etichetta che mi verrà affibbiare di volta in volta. Mi considero una portavoce di genere.

Anche «Heritage», come il precedente «La carte n’est pas le territoire » con cui lei ha raccontato le storie di personaggi black di tutti i tempi che hanno combattutto per l’affermazione dei diritti, è una galleria virtuale. Ritiene che il digitale sia lo strumento più adatto per decostruire i sistemi ereditati del colonialismo?
La storia dell’Africa è stata molto spesso narrata da altri. Sono affascinata dalle tecnologie digitali e dalle possibilità che offrono all’Africa di raffigurarsi, condividere e diffondere la propria storia con le sue stesse parole e visioni del mondo. Creando la galleria virtuale mi sono adattata ai nuovi modi di consumo culturale per promuovere la nostra Africa che cambia attraversando le vicende della storia, un continente ancora conosciuto poco e male. E ho voluto dimostrare la sua straordinaria creatività ancestrale, copiata in tutto il mondo e fonte d’ispirazione dell’arte moderna occidentale. Il fine è quello di permettere agli africani di riappropriarsi dei loro eroi e del loro patrimonio storico. Per quanto riguarda il resto del pianeta, l’obiettivo è quello di far scoprire questo patrimonio o riscoprirlo, sfruttando un altro punto di vista. Metto in discussione anche le frontiere tra arte tradizionale e digitale, reale e virtuale, storia tramandata e verità dei fatti, rappresentazione e cosa rappresentata. Mi interessa far cadere qualsiasi barriera che offuschi il nostro sguardo sul mondo.

 

FOCUS

Fin dagli anni Cinquanta, Felicia Abban (1943), tra le artiste del primo padiglione del Ghana (curato da Nana Oforiatta Ayim) alla 58/a Biennale d’Arte di Venezia, si mette in posa nel suo studio fotografico nel quartiere di Jamestown ad Accra.
Indossa abiti tradizionali di tessuto kente o alla moda occidentale: inquadra il volto per passare alla figura intera, in una performance rituale che è sempre una replica di sé. Brillante lo stratagemma della giovane, prima fotografa del Ghana, alle prese con una professione maschile che aveva imparato a 14 anni nello studio fotografico paterno a Takoradi. Non è solo marketing pubblicitario, c’è pure un velato messaggio di rivendicazione di genere in un’epoca di grandi cambiamenti. Nel 1957 il Ghana è il primo stato dell’Africa occidentale a ottenere l’indipendenza dal Regno Unito: lei documenta gli eventi più importanti, tra politica e vita sociale, diventando la fotografa ufficiale del presidente Kwame Nkrumah. Nel suo studio, che a breve diventerà il Felicia Abban Museum, passano generazioni di fotografe per apprendere la sua lezione, sfidando i preconcetti nell’affermare la loro emancipazione come fotografe.

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Di passaggio del testimone parla anche la palestinese Larissa Sansour (1973) con un lavoro sulla coscienza condivisa. La Danish Arts Foundation l’ha selezionata per rappresentare la Danimarca a Venezia (Heirloom è curato da Nat Muller) proprio per il suo sguardo fuori dagli schemi che riflette sui temi d’identità, appartenenza e memoria con il film In Vitro (diretto da Søren Lind, le palestinesi attrici Hiam Abbass e Maisa Abn Elhadi) e l’installazione Monument for Lost Time. Nella città di Betlemme, in un’epoca definita come post disastro ecologico, avviene l’incontro tra l’anziana fondatrice di un frutteto sotterraneo e la giovane donna destinata a raccogliere l’eredità di un qualcosa che non ha mai conosciuto. Ancora una volta, l’artista palestinese trova nella fantascienza la chiave di negoziazione della storia, intercettando simbolicamente segmenti di realtà. Il valore non è dato dal tempo presente, passato o futuro, ma dalle possibilità alternative che scaturiscono dalla sospensione temporale sollecitata dall’espediente fantascientifico.

Un luogo geografico reale è, invece, il punto di partenza per Naiza Khan (1968), protagonista del padiglione del Pakistan (Manora Field Notes è curato da Zahra Khan), alla sua prima partecipazione alla Biennale. È la sintesi di un racconto iniziato nel 2007, data in cui per la prima volta l’artista pakistana ha visitato l’isoletta di Manora, a poche miglia dalla costa di Karachi.
Un rapporto costante di andate e ritorni, arricchite di esperienze tangibili e intangibili collezionate, assorbite, archiviate. Il cambiamento del paesaggio naturale e urbanistico-architettonico riflette il passaggio della storia, ma anche l’oggettivazione della percezione dello sguardo, complici le lenti degli antichi telescopi che ridefiniscono la dimensione spazio/temporale.
Passeggiando per Manora Naiza Khan fotografa, gira video e raccoglie materiali abbandonati che prendono forma nei disegni, dipinti e sculture. Un esercizio di libertà creativa in cui non c’è più orizzontalità né verticalità. (m.d.l)