Bisogna spazzare via un alibi. Chi ha paura degli immigrati? Forse qualcuno degli abitanti di quartieri che si trovano ai margini della società e che riversano sulla presenza degli immigrati una insicurezza che caratterizza comunque la loro condizione anche nei confronti di chi immigrato non è, perché quella che provano è in realtà la paura di un ambiente che è loro sempre più estraneo ed ostico.

Poi la paura del migrante, o addirittura dell’invasione – ma non certo da parte di un esercito nemico, bensì di un presunto nemico, «lo straniero», presentato come se fosse un esercito – viene quotidianamente insufflata attraverso i mezzi di comunicazione di massa e soprattutto i social, fino a suscitare non la paura, ma l’idea di dover avere paura. Ma i migranti che incontriamo tutti i giorni per strada, o su un tram o un bus, o a chiedere la carità, o a fare i facchini, o a pedalare per portare la pappa a chi non si alza neppure più dal divano (e non sono certo quelli del reddito di cittadinanza!), o anche solo ad affacciarsi dalla grata di un centro di accoglienza trasformato in prigione, quelli non fanno paura a nessuno.

La paura del migrante è in realtà paura di un fantasma che nessuno vede: una favola. Ciò che troviamo al suo posto, se solo proviamo a grattare sotto quel luogo comune (ma da tempo non c’è nemmeno più bisogno di grattare tanto) è un sentimento del tutto diverso e anzi opposto: il disprezzo per un essere umano che si vuole considerare altro e diverso da sé. E, ovviamente, inferiore; cosa che viene ribadita con allusioni, parole, gesti e fatti compiuti per averne conferma. Quel disprezzo è un fattore di compensazione per i torti che si subiscono quotidianamente da parte di chi sta sopra di noi o per l’insuccesso in contesti dove lo considera una colpa. Al posto di una prospettiva di miglioramento o di ascesa sociale ci si accontenta di spingere più in basso chi è meno di noi in grado di difendersi.

È il meccanismo tipico del razzismo, che si rafforza trasformando il disprezzo in odio: un sentimento che fa da barriera contro ogni forma di comprensione o di compassione. L’odio rende il disprezzo irrevocabile perché impedisce l’ascolto. L’aggressione sia verbale che fisica (inizialmente solo verbale, ma per «allenarsi» a quella fisica, a cui non tutti riescono ad arrivare; i più preferiscono delegare questo passaggio ad altri, siano essi squadracce o forze dell’ordine) è innanzitutto, agli occhi di chi la pratica, una manifestazione di protagonismo: qualcosa che ti fa uscire dall’anonimato, ti fa sentire che «conti» qualcosa. Ma da cui è molto difficile tornare indietro.

Disprezzo e odio creano «identità» lungo una spirale che li trasforma facilmente in abitudine: «Prima gli italiani» non significa certo quello che dice: in quello slogan gli italiani sono solo loro, quelli che odiano o che disprezzano lo straniero; non certo quelli solidali. E per uscire da quella contraddizione – quel «prima» non spetta a tutti gli italiani – riversano lo stesso odio e disprezzo sulla solidarietà, sulle sue manifestazioni, su coloro che la praticano: persone che «non hanno il coraggio dell’odio», non hanno la capacità di praticarlo, non hanno l’orgoglio del proprio esclusivo diritto, Untermenschen, sottouomini, femminucce. O sottodonne, «troie»: la qualifica più usata. Sessismo e maschilismo si saldano al razzismo anche se vengono ipocritamente negati: Salvini porta su un palco una bambola gonfiabile a scopo sessuale per simulare un’avversaria e chiama delinquenti profughi e solidali, ma si indigna se lo chiamano razzista o maschilista.

Dovrebbe essere chiaro perché il femminismo e le sue più recenti manifestazioni rappresentano una minaccia mortale per l’onda nera di razzismo che sta attraversando il mondo cosiddetto sviluppato, mascherando l’odio con la paura. Il razzismo si radica nel machismo (praticato dai maschi ma subìto anche, in varia misura, da molte donne) e questo prende forma dalla più antica e profonda struttura di dominio, il patriarcato, che è possesso: innanzitutto delle donne da parte dei maschi e poi, sul modello di questo, di tutte le altre forme di proprietà: di terre, animali, schiavi, rango, mezzi di produzione, denaro, ma anche patria, cultura, tradizioni, geni, saperi.

È la paura di perdere tutte queste cose – a partire dalla «propria» donna – o anche solo alcune di esse, e persino quelle che si desiderano ma non si hanno, e non quella del migrante, ad aprire la strada all’odio; e a trascinare alla violenza, allo spirito di sopraffazione, allo stupro, al femminicidio, alla richiesta di far «piazza pulita» di tutti gli stranieri.

Quella paura del migrante, che non è paura se non in modo riflesso, si supera solo promuovendo una socialità che in molti ambiti del nostro vivere quotidiano è da tempo venuta meno; una socialità, che è sempre anche solidarietà, non solo nei confronti dello straniero, ma innanzitutto di chi ci è vicino (il nostro prossimo); chiunque esso sia.