È arrivato anche il pensierino di Beppe Grillo e così siamo al completo. Adesso tutti, ma proprio tutti, vogliono bene a Pierluigi Bersani. Adesso anche chi fino a poco tempo fa lo chiamava «parassita», «padre puttaniere» e «morto che parla», ora che lo ha visto guardare davvero la morte in faccia, gli riconosce «grandi pregi». C’è spesso molto conformismo nella solidarietà e pure i più irriverenti ci cascano.

O forse Grillo aveva un altro problema: cercare di frenare la giostra degli insulti dei suoi, la sconcia soddisfazione con la quale troppi sostenitori dei Cinque stelle hanno accolto la sofferenza dell’ex segretario del Pd, «Gargamella». Se è così, l’apprendista stregone è in ritardo. Certo, non ha inventato lui la cattiveria e nemmeno l’insulto anonimo. Ma sta dando un bel contributo alla diffusione in politica dell’odio orgoglioso e rivendicato. E così molte delle frasi più cretine e terribili contro Bersani sono apparse firmate con nome e cognome.

Ma messo da parte Grillo e tornando a Bersani – fortunatamente con più serenità visti i bollettini medici – c’è da giudicare la partecipazione pubblica al suo malore. Che da parte del mondo politico è stata davvero immediata, generale e persino (azzardiamo) sincera. Abbiamo visto avversari accaniti commuoversi in televisione, arcinemici che all’ex segretario avevano gridato di tutto arrampicarsi lungo la scala delle dolcezze. Un frasario che sulla bocca dei politici non sappiamo neanche più riconoscere; certi comunicati sembravano scritti in lingua morta. Si può credere a un ravvedimento istantaneo, a uno spavento collettivo o al buonismo delle feste. Oppure a qualcosa di meno edificante com’è la generosità comoda che viene riservata agli sconfitti.

Bersani lo è indubbiamente: uno sconfitto. Errori suoi e colpi bassi degli altri – e persino scorrettezze istituzionali come quella di non avergli consentito di chiedere la fiducia in parlamento – lo hanno precipitato in pochi giorni dalla ribalta di una vittoria annunciata alla retrovia del leader che poteva essere e non è stato. La sua parabola aveva qualcosa di tragico anche senza il malore dal quale vogliamo che si riprenda al più presto. L’ostinazione nel perseguire il «cambiamento» immaginato prima del voto (per quanto male, per quanto poco) è apparsa coraggiosa, ma è rimasta troppo intrecciata a una proposta politica timida e costruita su programmi, colonnelli e alleanze che coraggiosi non erano affatto. E così, adesso, chi vede la sciagura delle larghe e poi piccole intese può certo rammaricarsi della sconfitta di Bersani, ma è un rammarico che deve partire dagli errori dello sconfitto. Chi invece le larghe intese voleva, e in Bersani ha visto un ostacolo da superare anche grazie al voto segreto contro Prodi, può adesso dare libero sfogo ai buoni sentimenti. Con quell’affetto verso i sommersi che nei salvati fa sempre venir su un po’ di cattiva coscienza.

Per questo non possiamo condividere l’ottimismo di Pierluigi Castagnetti, che nella solidarietà per l’ex segretario ha voluto leggere, su Europa, «la conferma che il Pd è una comunità di persone che ha imparato a discutere sentendosi della stessa famiglia». Perché per il nuovo capo famiglia Bersani era ormai una parentesi chiusa, uno della vecchia guardia archiviato (e la parola non è questa). Per assistere all’epifania di un partito e non di un’altra corrente bisognerebbe invece che gli astri crescenti della nuova maggioranza del Pd trovassero la forza della solidarietà non solo verso chi considerano inoffensivo. Al momento chi disturba è insultato, lo abbiamo appena visto, o deriso.