L’intramontabile One-Two dà il via al potente attacco di piano e chitarra per Prove It All Night, per molti anni l’introduzione dei concerti di Springsteen e della E-Street Band, il manifesto di una serata fantastica da passare assieme, come testimonia questo documento straordinario del settembre 1979 con Bruce trentenne, all’acme del suo vigore, suonando al meglio e divertendosi con i suoi compari, un treno di contagiosa energia pura, l’emozionante live show alla dinamite diventato il suo marchio di fabbrica. Un perfetto documento del periodo, questo The Legendary 1979 No Nukes Concerts, film in uscita sulle piattaforme digitali (ma disponibile anche in formato fisico), una delle migliori performance del Boss mai viste sullo schermo. All’epoca il rocker del New Jersey non amava far riprendere i suoi concerti, però fece un’eccezione per la doppia esibizione al Madison Square Garden a sostegno del MUSE (Musicians United for Safe Energy), un’organizzazione antinucleare.

«ERA UN MOMENTO critico» ricorda Springsteen «Il mio amico Jackson Browne era molto coinvolto. È un’attivista e io in qualche modo sono stato assoldato. Ma ero curioso di vedere fino a dove potessi portare la mia musica, se fossi stato in grado di dare una mano. Avevamo così tanto successo che era ovvio pensare di farci qualcosa di buono e perciò decisi di aiutarli». Alla fine ha lasciato che gli organizzatori usassero le performance di The River, Thunder Road e Quarter to Three. I brani rappresentano il punto più alto del film del 1980, No Nukes, ma la maggior parte delle riprese del set della E Street Band – quasi tre ore di musica, filmata nell’arco di due serate, il 21 e il 22 settembre – sono finite in un archivio e non hanno visto la luce per quarant’anni. L’ha ripescate dall’oblio, Thom Zimny, storico collaboratore del musicista, che ha lavorato partendo dalla registrazione originale del concerto in 16mm e con il remix audio curato da Bob Clearmountain. La spettacolare maratona è una smagliante sintesi di quel viaggio verso la terra promessa, annunciata dalla voce appassionata dell’America di provincia. L’altra riva del sogno americano, tra delusioni, strade difficili, impegni da mantenere, tentativi di essere felici: «Una cosa so per certo/non mi frega nulla delle vecchie solite cose/e non mi frega niente di quello che accadrà/dolcezza, voglio il cuore, l’anima, il controllo, tutto adesso» snocciola l’adrenalinica Badlands mentre il gigante Clarence Clemons spreme le note del suo sax per lanciare l’assolo di Bruce, che balla sul posto, saltella, si piega verso le prime fila, punta la chitarra verso il pubblico, scarica un flusso sonoro travolgente.

LE CANZONI sono cazzotti che colpiscono allo stomaco, spesso con le strofe cantate in coro dai ragazzi in sala, come le versioni inedite di Sherry Darling, Born To Run, The promised land, Jungleland e Rosalita, trasformate in quelle lunghe jam-session di 7-8 minuti, con le scenette con l’altra chitarra Little Steven (van Zandt) o il professore al piano Roy Bittan o salendo in testa alla batteria di Max Weinberg. Altri brani lunghi sono il Detroit Medley, mischione di blues diabolico terminante con Good Golly Miss Molly, un classico di Little Richard, Rave on che viene da Buddy Holly e l’inevitabile Stay con ospiti Jackson Browne, Tom Petty e Rosemary Butler. «Dopo un’ora e sette minuti, cioè quando inizia il Detroit Medley, l’energia arriva a livelli mai visti», dice Jon Landau, il suo manager, «Bruce va in uno spazio dove libera completamente le endorfine. Diventa pura energia. Sembra che galleggi. È spettacolare». Una trionfale cavalcata con Bruce in gran forma, tanto da buttarsi a terra esausto per evitare i bis. Un altro vecchio trucco prima di riprendere a saltellare, correre per il palco, ballare rock’n’roll. Il tipico ciclone Bruce.