All’indomani del «giorno del giudizio» (ormai sui giornali ogni scadenza di queste convulse primarie merita un titolo da film d’azione) si conferma la situazione caotica come non mai, sintomo di una transizione politica all’insegna dell’incertezza.
Sono passate sei settimane da quando il processo è iniziato sotto le nevi dell’Iowa e a questo punto, nel congegno delle primarie, la partita dovrebbe essere chiusa o comunque ben avviata verso una prevedibile conclusione. La successione a Barack Obama rimane invece tuttora apertissima – o almeno molto più di quello che avrebbero preferito i comitati centrali dei rispettivi partiti. E se pure i frontrunners arrivassero alla meta, lo farebbero claudicanti, indeboliti da confronti imprevedibilmente aspri.

È particolarmente vero per i repubblicani, avviati verso il paradosso senza precedenti di un candidato, Donald Trump, in aperto conflitto con il proprio stesso partito o almeno con quelle parti istituzionali che dopo aver per anni strumentalizzato il livore delle componenti più estreme, si trovano adesso a fare i conti con il frutto avvelenato della propria stessa demagogia. Si prospetta insomma quella «casa divisa contro se stessa» contro cui inveiva Lincoln, padre fondatore repubblicano, quando perorava la riconciliazione fra Nord e Sud. E per quanto i repubblicani si scaglino contro il «complotto socialdemocratico» di Bernie Sanders «per trasformarci in europei», le intemperanze esplose negli ultimi giorni ai comizi di Trump, rappresentano una svolta hooliganista per la politica Usa, che la avvicina a certe manifestazioni più comuni nel vecchio continente. L’intolleranza promossa dallo squadrismo trumpista potrebbe prefigurare una convention convulsa come mai dal 1968 a Chicago. Allora fu il partito democratico a rischiare l’implosione sullo sfondo della contestazione generazionale alla guerra del Vietnam. A luglio a Cleveland il Gop rischia invece di dilaniarsi dall’interno per la fronda populista di Trump.

Sulla carta questo dovrebbe assicurare la sconfitta di un Partito repubblicano in terminale crisi di indentità, eppure allo stesso tempo non c’è nulla di certo in questo panorama di riallineamento delle constituencies della politica americana che esacerba le fratture razziali, di genere ed economiche e in cui si presenta il conto politico di una speculazione finanziaria sulla pelle dei lavoratori. Molte strategie elettorali sono insomma spiazzate da un patto sociale profondamente incrinato per cui i candidati annaspano ad assemblare una coalizione che spiani la strada del potere.

In campo democratico, il candidato che nominalmente più rappresenta la continuità dell’era Obama, Hillary Clinton, con il voto di ieri ha concluso una settimana che ha evidenziato alcune debolezze strutturali legate alla sua lunga carriera di insider. Ai funerali di Nancy Reagan (con la quale per molti versi è stato simbolicamente sepolto l’arco trentennale del reaganismo) l’ex first lady si è fatta immortalare in un affettuoso abbraccio con George Bush. Un incontro fra vecchi avversari e conoscenti ma anche un’immagine che sotto elezioni vale mille parole – nessuna lusinghiera, particolarmente fra quei millennial già più disposti a votare per Sanders. Poi, ancora più incautamente Hillary ha elogiato il lavoro di Nancy Reagan «nel combattere l’Aids» alienando il mondo gay e tutti coloro che ricordano lo scandaloso silenzio e tossico moralismo dei Reagan all’epoca dell’epidemia. Pur dopo le scuse per la gaffe, questi episodi hanno rafforzato l’impressionedi una figura politica datata e «di sistema», particolarmente vulnerabile nell’anno di generalizzata insofferenza contro i massimi sistemi della politica.

 

bushhillary

 

Il bagaglio di esperienza di Hillary potrebbe insomma facilmente tramutarsi in fardello agli occhi di un elettorato affamato di nuovo, particolarmente nella sinistra, a disagio con le sue posizioni più militariste e filoisraeliane.

Gli scheletri nell’armadio di Hillary potrebbero costargli caro, ma Sanders potrebbe non esserne immune. Lo si è capito con il primo attacco a mezzo stampa concertato contro di lui con una serie di articoli che hanno ripreso le sue dichiarazioni «a favore di dittature totalitarie». Diversi siti e giornali hanno parlato del «lato oscuro» del suo socialismo rivisitando la militanza pro-sandinista di cui Sanders è stato protagonista negli anni ’80 quando era uno degli esponenti più agguerriti contro le sporche guerre di Reagan in Centro America. È seguita una prevediile ondata di sdegno virtuoso e una corsa a distanziarsi dalle posizioni «vetero internazionaliste» del candidato, ancora anatema per una fetta consistente del paese.