Il 4 dicembre 2016 sarà ricordato come l’inizio del cambiamento se saprà porsi all’origine di una lunga fase di riflessione critica sul passato e di lenta ricostruzione del futuro. Una data di svolta, a condizione di essere in grado di ricostruire dalle macerie del presente. Il più grave errore sarebbe quello di accontentarsi dell’esito referendario: abbiamo suscitato enormi aspettative e deluderle sarebbe letale. Dopo tanto nuovismo regressivo, dovremmo ora cominciare a costruire un altro futuro possibile.

Per intraprendere quest’impresa è necessario avere chiaro il senso di quel che è stata la realtà dello scontro sulla costituzione. Nel referendum si sono combattute due diverse visioni di democrazia: da un lato, le prospettive identitarie che ritengono necessario semplificare la complessità sociale, rendere autoreferenziale il sistema politico e le istituzioni rappresentative, concentrare i poteri nelle mani degli esecutivi; dall’altro, le prospettive pluraliste che credono necessario estendere la partecipazione e legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il luogo del compromesso politico. La prima prospettiva è quella perseguita da oltre vent’anni, non solo in Italia. La seconda ha vinto il referendum.

IL COMPITO CHE ORA abbiamo davanti è quello, difficile, di dare forma ad un modello complesso di democrazia pluralista. Da dove partire? Dalla rappresentanza politica e dal ruolo del Parlamento, ad esempio. Sul primo fronte è evidente la crisi, ma il dibattito pubblico sembra preoccuparsi esclusivamente della questione della legge elettorale. Tema politico decisivo, s’intende, ma che rischia di oscurare quel che viene prima e che appare ancor più importante. A che serve, infatti, il migliore dei sistemi di voto se il popolo diserta e non riconosce più i propri rappresentanti?

Se si vuole il rinnovamento della democrazia la madre di tutte le battaglie è la questione della partecipazione attiva dei cittadini.

Non sarà né facile né immediato riavvicinare il popolo alla politica. Tuttavia per iniziare potremmo riscoprire il ruolo degli istituti di partecipazione già previsti in Costituzione. Ad esempio, il referendum abrogativo che deve trovare ancora una collocazione certa nell’ambito della nostra forma di governo parlamentare. Perché non chiedere di cambiare la legge del 1970 con specifiche modifiche: anticipare il giudizio di ammissibilità della Corte, favorire il sistema di raccolta delle firme mediante l’uso degli strumenti informatici, imporre per via di regolamento parlamentare l’obbligo per le camere di dare seguito alle decisioni di natura puramente abrogativa che un esito positivo del referendum determina. Piccole correzioni, ma tutte nella giusta direzione.

SI POTREBBE PENSARE anche a rivitalizzare l’istituto dell’iniziativa legislativa popolare, che potrebbe rappresentare un altro strumento non solo di partecipazione, ma persino pedagogico per ridare ai cittadini un po’ di fiducia sul proprio ruolo attivo nelle istituzioni. Credo sia giunto il momento per pretendere quella piccola modifica dei regolamenti parlamentari che da tempo è stata auspicata: si garantisca la calendarizzazione entro sei mesi dei disegni di legge di iniziativa popolare e l’obbligo di giungere a decidere nel merito.

È poi necessario guardare anche al Parlamento che oggi rischia di essere definitivamente abbandonato da un popolo distratto e indifferente. Iniziamo a riorganizzare i lavori delle assemblee legislative per restituire dignità al lavoro parlamentare. Non si può continuare ad assistere allo spettacolo di un Parlamento come puro teatro di scontro: da un lato il governo che impone ordini del giorno, emendamenti, fiducie, tempi; dall’altro minoranze parlamentari impotenti che gridano ma non partecipano, che utilizzano pratiche ostruzionistiche al solo fine di allontanare la decisione. Maggioranze silenti contro opposizioni vocianti. Così il Parlamento non può che morire.

Per ridare spazio alle libere dinamiche della politica e riscoprire le virtù del compromesso parlamentare, il primo passo è quello di cambiare le regole del gioco, rivoltando i suoi regolamenti. Nuove regole che favoriscano il confronto, non invece impediscano la discussione. Ammettendo pure limiti al potere d’ostruzione delle minoranze, ma con la garanzia della permanente libertà di dibattere e l’assicurazione di poter esercitare tutte le prerogative dei parlamentari che rappresentano l’intera nazione (ma anche la diversità che in essa si specchia) e che devono poter esercitare il mandato senza vincoli. Sarebbe un piccolo passo, consapevoli che ben più radicali innovazioni dovrebbero riguardare il sistema parlamentare. Prima o poi dovremmo anche ridiscutere del rapporto con il governo, di quello tra le due camere, delle funzioni esercitate, del significato delle leggi, del riordinamento del nostro sconclusionato sistema delle fonti. Ma almeno iniziamo dall’organizzazione dei lavori. Mi viene in mente un passo di Cesare Pavese: bisognerebbe avere il coraggio di svegliarsi per ritrovar sé stessi.