I La Ue è armata per difendersi dall’Inflation Reduction Act (Ira) degli Stati uniti, 369 miliardi di dollari stanziati da Joe Biden per favorire la transizione verde, ma al tempo stesso il made in Usa a scapito degli alleati-concorrenti? E più in generale, quale è il giudizio che Bruxelles dà sull’Ira, è protezionismo in un contesto di ridefinizione della mondializzazione attorno a aree economiche specifiche? Tra i 27 ci sono risposte diverse.

LA COMMISSIONE cammina sulle uova, per cercare una linea di compromesso. La discussione sarà feroce al Consiglio europeo del 9-10 febbraio (compresa la riforma del mercato dell’elettricità). Ieri, la presidente Ursula von der Leyen ha presentato a grandi linee un progetto di Green Deal industriale per la Ue (il Green Deal Industrial Plan), partendo dalla constatazione che dei «sussidi stanziati altrove stanno alterando i termini» della concorrenza mondiale.

Per la Ue, c’è il rischio di un’emorragia di investimenti industriali verso gli Usa, per rispettare le regole dell’Ira – produrre localmente – approfittando per di più di costi dell’energia significativamente inferiori a quelli europei. A frenare sul livello di un eventuale contrattacco europeo ci sono anche considerazioni geopolitiche: è il momento di attizzare tensioni nel fronte occidentale, mentre è in corso la guerra in Ucraina? La Commissione ha messo allo studio un Fondo europeo di sovranità, di cui però si parlerà in estate: l’ambizione è di mettere a punto una risposta strutturale ai bisogni di investimento. La Francia spinge per una strategia industriale a favore del “made in Europe” (di cui la carbon tax alle frontiere esterne è un elemento importante).

«Abbiamo ripetuto che la lotta contro il cambiamento climatico è un dovere – ha detto ieri von der Leyen – un dovere per il pianeta Terra, per la nostra prosperità economica e per l’indipendenza strategica». La presidente ne conclude che «abbiamo bisogno di competitività».

PER ALCUNI STATI UE la strada passa necessariamente per gli aiuti di stato. È già in via di attuazione la semplificazione per aiuti pubblici destinati a investimenti nelle energie rinnovabili e in processi industriali decarbonati. Si parla di allentamento delle regole generali di esenzione (Gber), da cui passa il 90% delle sovvenzioni. Sugli aiuti di stato le briglie si sono già allentate nella Ue prima per far fronte al Covid, poi per la guerra. Emmanuel Macron nell’incontro del 22 gennaio alla Sorbona per celebrare i 60 anni del Trattato dell’Eliseo, ha ottenuto un via libera da Olaf Scholz per un rilassamento delle regole sugli aiuti di stato. Ma alcuni paesi Ue sono in stato d’allerta: la scorsa settimana, i ministri delle Finanze di Finlandia, repubblica ceca, Danimarca, Estonia, Irlanda, Austria e Slovacchia hanno scritto una lettera al commissario Valdis Dombrovskis per criticare la strada dei “sussidi” come arma per combattere l’Ira statunitense (i piccoli paesi temono di venire schiacciati dalla forza d’urto della Germania, in particolare, che ha un forte margine per investimenti pubblici). Macron, lunedì in Olanda, ha incassato un chiaro “no” di Mark Rutte all’ipotesi di un nuovo fondo di debito comune per la nuova politica industriale verde. Anche la Germania è scettica.

La Commissione quindi si limita a dire che i 27 devono «aggiustare» i rispettivi piani di rilancio al nuovo contesto, fatto di inflazione, di aumento del prezzo dell’energia, della necessità di aumentare la competitività. Per il momento, il NextGenerationEu con i 750 miliardi di debito comune, resta un esempio unico: nei fatti, non tutti i soldi dei Piani di rilancio sono stati spesi e possono quindi venire ridestinati a programmi collaterali, come i 220 miliardi indirizzati verso RePowerEu (più 20 miliardi di soldi freschi per le rinnovabili).