Non venivano dal nulla, le decine di migliaia di attivisti che si ritrovarono per le strade di Genova in quei giorni d’estate del 2001. Avevano fatto la loro irruzione sulla scena politica globale due anni e mezzo prima a Seattle, quando avevano bloccato la cerimonia inaugurale di una riunione ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Appartenevano a gruppi di diversa estrazione politico-culturale – marxisti eterodossi, anarchici e libertari di varia risma, cattolici di base, femministe, contadini-sindacalisti, ambientalisti, volontari di ong terzomondiste e di associazioni come Attac che proponevano la tassazione delle transazioni finanziarie – tutti accomunati dalla critica radicale allo strapotere delle multinazionali e alle organizzazioni sovranazionali di governo del neoliberismo, che allora appariva l’unica ideologia trionfante dopo il crollo del socialismo reale.

In mezzo lustro, a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, il «popolo di Seattle» – come fu presto definito – arrivò a sfidare il potere delle istituzioni globali dovunque esse si riunissero, da Praga a Davos. Era un movimento globalizzato come la mondializzazione che contestava e la sua forza innovativa risiedeva non solo nell’aver compreso che le dinamiche del capitalismo post-guerra fredda trascendevano le frontiere degli Stati, ma nel riportare nelle pratiche quotidiane dei singoli gruppi quel modo di ragionare.

Fu alimentato da libri come «No Logo» della giornalista canadese Naomi Klein e «Impero» di Michael Hardt e Toni Negri, da giornali come Le monde diplomatique, dalle analisi dell’economista filippino Walden Bello e da quelle del sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, dalle battaglie dell’ecologista indiana Vandana Shiva e dalla musica di Manu Chao, dalle zone temporaneamente autonome del filosofo anarchico Hakim Bey e dalla teologia della liberazione del missionario domenicano Frei Betto.

Si opponeva ai trattati che liberalizzavano i commerci e agli ogm, opponeva la democrazia diretta e partecipativa allo strapotere dell’oligarchia globale, proponeva un cambiamento negli stili di vita e di consumo, si batteva contro lo sfruttamento delle risorse naturali del pianeta e, in definitiva, contestava l’ordine globale emerso dopo la fine della contrapposizione Usa-Urss.

Era discendente diretto delle utopie libertarie del Novecento ed erede dei grandi movimenti del secolo che andava morendo, dal ’68 alla lunga stagione degli anni Settanta. In Italia, si nutriva del vuoto lasciato dalla deflagrazione del più grande partito comunista d’Occidente, delle idee lasciate dai movimenti della cosiddetta sinistra extraparlamentare, dell’attivismo giovanile che si condensava nei centri sociali occupati e della ramificazione capillare delle reti cattoliche di base.

Il movimento sembrava inarrestabile e contagiava giovani attivisti e attempati militanti in ogni angolo del globo, grazie alle informazioni e alle immagini autoprodotte che circolavano su una rete ancora non dominata dai social network. Sfilavano insieme i pink, sostenitori di azioni tanto radicali quanto non violente, le tute bianche che propugnavano la disobbedienza sociale e i duri del blocco nero, che sfasciando vetrine e bancomat intendevano colpire i simboli materiali del capitalismo.

Finché arrivò la repressione. A Napoli, il 17 marzo 2001, andarono in scena le prove generali di quello che sarebbe accaduto quattro mesi dopo a Genova. A margine di un dimenticabile «Global Forum» dell’Ocse e con un’informazione distratta dalle imminenti elezioni politiche, nella centrale piazza del Municipio andarono in scena cariche concentriche di carabinieri, finanza e polizia, arresti di massa e pestaggi gratuiti. I fermati furono portati in una caserma di polizia, la Raniero, presi a schiaffi e manganellate, obbligati a rimanere per ore con la faccia contro il muro, denudati, insultati e perquisiti. Da allora il movimento fu definito «no global» e nessuno immaginò che quelle potessero essere le prove generali di quello che sarebbe accaduto, più in grande stile, a Genova pochi mesi dopo.

Nel mezzo, rischiò di scapparci il morto. Nella tranquilla Göteborg, alla metà di giugno, mentre si svolgeva un vertice europeo la polizia sparò ad altezza d’uomo, ferendo in maniera grave un giovane dimostrante. Non accadeva dai cosiddetti «anni di piombo» che nelle strade della contestazione rispuntassero le armi, per di più da una parte sola: quella delle polizie.

Da quei giorni fino alle giornate di Genova, non si parlò quasi per nulla delle ragioni di chi si preparava a contestare, bensì di allarmi e sicurezza. Silvio Berlusconi arredò la zona rossa di limoni finti e oltre le barriere poste a protezione del summit dei G8 scoppiò il finimondo. Quel movimento non finì dopo i pestaggi per strada, l’uccisione di Carlo Giuliani, le sevizie nella caserma di Bolzaneto e l’irruzione alla scuola Diaz. Dopo Genova nulla fu però più come prima. Arrivarono gli attentati dell’11 settembre, scoppiò la guerra in Afghanistan e la stagione dei controvertici andò pian piano spegnendosi. Ce ne furono ancora di imponenti: a Barcellona e Siviglia furono presi di mira i summit dell’Unione europea, al G8 sul lago Lemano tra Svizzera e Francia si rischiò una seconda Genova quando un poliziotto tagliò una fune alla quale era appeso un attivista britannico che fece un volo di quindici metri giù da un ponte, salvandosi per miracolo.

Più che un tramonto, fu una trasformazione. Dalla contestazione si passò alla proposta. Il Forum sociale mondiale si proponeva di creare un’alternativa dal basso al neoliberismo. Il suo slogan era «un altro mondo è possibile».

La prima edizione, nel gennaio 2001 nella città brasiliana di Porto Alegre, aveva avuto scarsa eco mediatica. I successivi, dopo i fatti di Genova, attirarono decine di migliaia di manifestanti da tutto il mondo. Luiz Inacio Lula da Silva tenne il suo primo discorso da presidente del Brasile davanti a 80 mila militanti arrivati da tutto il mondo. Il movimento da «no global» divenne così «altermondialista»: non diceva no alla globalizzazione ma ne proponeva una più solidale e internazionalista.

A Firenze, nel 2002, si diedero appuntamento mezzo milione di persone e ad Atene nel 2006 il Forum sociale europeo lanciò i presupposti dell’incipiente ribellione contro la troika e le misure di austerità che di lì a pochi anni avrebbero ridotto il paese e un’intera generazione sul lastrico. Tra Edimburgo e Glasgow, nel 2005, andò in scena l’ultimo anti-G8. Mentre migliaia di manifestanti scendevano in piazza per contestare i Grandi della Terra, l’invasione dell’Afghanistan e soprattutto Tony Blair che aveva dato il la alla guerra in Iraq, quattro kamikaze ispirati dall’ideologia qaedista si facevano saltare in tre metropolitane londinesi.

In un solo giorno, si saldarono due storie che a Genova si erano solo sfiorate. Di lì a poco, una pesante crisi economica arriverà a rendere visibili molti dei temi che il «movimento dei movimenti», come pure era stato definito, aveva anticipato.

La sua stagione, durata giusto gli anni a cavallo del secolo, si era esaurita, ma le questioni che l’avevano creato e alimentato rimarranno tutte aperte e in gran parte tuttora irrisolte. Tutti i movimenti globali nati in seguito, da Occupy ai Fridays for future, anche se composti da ragazzi che nei giorni di Genova erano ancora in fasce o addirittura neppure nati, portano in dote pezzi consistenti di quell’eredità.