Approvata definitivamente la riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari, dovranno trascorrere tre mesi dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale (oggi) prima che il presidente della Repubblica la possa promulgare. L’intervallo serve a consentire a 500mila elettori, 5 consigli regionali oppure un quinto dei deputati o dei senatori di promuovere il referendum confermativo. Le prime due ipotesi sono ragionevolmente da escludere, la terza, quella dell’iniziativa dei parlamentari, è già in campo. Forza Italia ha cominciato la raccolta di firme sia tra i deputati che tra i senatori, al senato ha maggiori possibilità di successo. Bastano infatti 64 firme e i senatori berlusconiani sono 61. Magari non tutti firmeranno, anche se nell’ultimo passaggio al senato la scelta del gruppo è stata quella di non votare la riforma, a differenza delle altre letture. Però non mancano senatori apertamente contrari al taglio che potrebbero firmare: Bonino, Casini, gli ex 5 Stelle De Falco, Martelli e Nugnes, il socialista Nencini, l’ex Pd Richetti. Stamattina intanto i senatori di Forza Italia Cangini e Pagano presenteranno la proposta di referendum assieme a De Falco e al Pd Nannicini.

Anche i senatori proponenti sanno che è assai improbabile che nelle urne referendarie i no al taglio dei parlamentari possano battere i sì. Ma a questo punto quello che conta sono i tempi del referendum. I tre mesi di intervallo dovranno trascorrere tutti, anche se le 64 firme di senatori (o, ma è assai meno probabile, le 126 di deputati) dovessero essere raccolte prima. Per prassi si attende sempre che scadano i termini anche per l’eventuale raccolta di firme dei cittadini. Arriveremo così al 10 gennaio. A quel punto la legge di revisione costituzionale potrebbe essere promulgata in assenza di richieste di referendum, le prossime elezioni politiche si terrebbero con i nuovi numeri ridotti – 400 deputati e 200 senatori – e il governo avrebbe due mesi di tempo per ridisegnare i collegi. Sulla base di una legge elettorale che già c’è, l’attuale Rosatellum adattato alle camere più piccole.

Ma se invece la richiesta di referendum confermativo arrivasse entro il 10 gennaio, a quel punto si aprirebbe un lungo intervallo: 30 giorni alla Corte di Cassazione per controllare la validità della richiesta (10 febbraio), 60 giorni al Consiglio dei ministri per fissare la data del referendum e al presidente della Repubblica per indirlo (11 aprile) e dai 50 ai 70 giorni per fare effettivamente il referendum (7 o 14 giugno). Solo all’esito del referendum, immaginando una vittoria dei sì, la riforma potrebbe essere promulgata, il taglio dei parlamentari entrare in vigore e il governo procedere alla ridefinizione dei collegi (eventualmente anche a seguito di un cambiamento della legge elettorale).

Tutto questo sforzo referendario potrebbe essere speso a vuoto, se le prossime camera saranno ugualmente elette con i nuovi numeri ristretti. Ma potrebbe non esserlo, se si aprisse una nuova crisi di governo tra Pd e 5 Stelle sulla legge di bilancio o subito dopo, magari proprio per differenze di vedute sulla riforma della legge elettorale o sugli altri aspetti – per quanto poco consistenti – delle riforme «compensative». Una crisi magari nei primi mesi del 2020. A quel punto i partiti avrebbero la tentazione di andare a votare con i numeri attuali e le due camere ancora in formato largo. Proprio la riforma, infatti, prevede che il taglio entra in vigore dalla prima legislatura successiva alla promulgazione della legge.

Avere la possibilità di eleggere ancora un numero elevato di deputati e senatori sarebbe una tentazione per le forze più grandi (M5S e Pd) della maggioranza. Mentre per le forze minori (Italia viva e Leu) potrebbe essere un modo per conservare almeno un po’ di rappresentanza (ma la legge elettorale in vigore le costringerebbe all’accordo con il Pd). Il paradosso è che il referendum costituzionale, a differenza di quello abrogativo, non viene rinviato in caso di elezioni anticipate. Per cui ci sarebbe il rischio di votare per 945 parlamentari avendo immediatamente dopo, con la vittoria del sì, la sanzione popolare del taglio a 600 parlamentari. Certo, il presidente della Repubblica potrebbe impedire questo esito paradossale, non sciogliendo le camere anche in caso di crisi, in attesa del referendum costituzionale. Ma se la crisi ci fosse già a inizio 2020, sarebbe arduo fare il terzo governo della legislatura o lasciare il Conte due in «prorogatio» fino (almeno) al prossimo settembre.