ana Rinaldi Castro

Centosettantaquattro, le ossa contate lo scorso ventitré aprile sulla spiaggia. Dopo una forte tempesta, le sponde rose dell’isola franano. Nel 2012, durante l’uragano Sandy, centinaia di scheletri emersero dalla terra, galleggiarono sull’acqua fino a City Island, l’isola di fronte.

Siamo a New York, al largo della costa est del Bronx, dove l’East River si unisce alla baia di Long Island. L’isola è Hart Island, il cimitero di fosse comuni più grande del mondo.

È consuetudine che in America i cimiteri abbiano sede separata dalle fosse comuni. A Los Angeles, ad esempio, i morti indigenti vengono cremati e inumati in un cimitero aperto a tutti e una cerimonia funebre annuale è officiata in loro memoria; a New Orleans, nella “Città dei Morti” -così chiamato il cimitero Holt, perché in una zona in cui la falda acquifera affiora facilmente, le bare è meglio racchiuderle in cripte di pietra- le tombe dei poveri, spesso interrate nel fango, sono nondimeno curate dai parenti.

Ma a New York, da centocinquant’anni, le fosse comuni si trovano su di una piccola isola, cinquantatré ettari di terra percossa dal vento, che accoglie falchi e oche canadesi ma il cui accesso è vietato ai cittadini e, più grave, reso difficile ai familiari dei morti.

Perché il cimitero è gestito dall’amministrazione del penitenziario di Rikers, situato su di un’isola non distante. Detenuti che scontano pene lievi, salpano due volte a settimana verso Hart Island per interrare- a cinquanta centesimi l’ora- i morti che la città manda da obitori, ospedali e ospizi. In media duemila all’anno, quasi un milione dal 1868.

Il Fema -l’Ente federale per la gestione delle emergenze- ha donato 13 milioni di dollari alla città di New York per la cura e il restauro dell’isola, ma i lavori inizieranno nel 2019. Nel frattempo, la città manderà una volta al mese un antropologo a recuperare eventuali ossa, in attesa di reinterrarle a restauro ultimato.

È dal 1946 che Rikers gestisce la sepoltura dei morti ma è dalla fine della guerra civile che l’isola di Hart serve New York. Compiti ingrati: campo di prigionia per i soldati confederati, campo di lavoro per la detenzione minorile, manicomio femminile, ospizio per uomini, lazzaretto durante l’epidemia della febbre gialla, sanatorio per tubercolotici, riformatorio, centro di riabilitazione per tossicodipendenti, carcere di minima sicurezza. E sempre, senza interruzione, cimitero dei poveri e dei senza nome.

Il sindaco De Blasio, che ci si immaginava sensibile alle richieste di trasferire la gestione del cimitero dal Penitenziario al Dipartimento dei Parchi (organismo normalmente preposto alla gestione dei cimiteri a New York), ha chiuso definitivamente la questione: è proibitivo il costo dell’operazione. La portavoce del sindaco, Natalie Grybauskas, aggiunge sorprendentemente:

Il Dipartimento dei Parchi non sa come amministrare Hart Island”. Spiega poi che il carcere considera questa funzione una “solenne responsabilità”.

Può darsi, io stessa nella mia visita all’isola -il permesso mi è giunto dopo anni di funamboleschi salti burocratici- parlando con le guardie carcerarie, ho avuto l’impressione di una forte compassione verso i morti da parte dei detenuti. E nel crudo documentario su Hart Island di Melinda Hunt, è indimenticabile la commozione di un giovane detenuto quando racconta della cinquantina di bare di pino poco più grandi di scatole per scarpe, che ogni settimana arrivano dagli ospedali della città: neonati, bambini nati morti.

Come ignorare, però, che quei morti sono poveri, spesso scordati o non identificati, e, ripeto, poveri? Dubito che di un altro cimitero si tollererebbe la deriva di crani, mandibole, clavicole, omeri, ulne, radii, bacini, femori e tibie sulle acque dell’oceano.

Guardie carcerarie e becchini di turno alzano le spalle, loro non sono stupiti. Da sempre, si riferiscono alla spiaggia dell’isola come alla “spiaggia delle ossa”.

Non piacciono le risposte del sindaco a Mark Levine e a Ydanis Rodriguez, consiglieri comunali che da anni si battono per dare un po’ di pace ai parenti dei morti di Hart Island. E nel Consiglio del 9 maggio ripresentano una proposta di delibera per trasferire la gestione del cimitero dal carcere alla città.

Leggo su Politico del 2 maggio scorso del signor Luigi Roma, barbiere, scomparso nel 1934. La figlia di lui, ora novantaquattrenne, lo ha cercato per decenni. È stata infine la nipote, Carol DiMedio, che ha trovato Roma ad Hart Island, con l’aiuto di Melinda Hunt, presidente dell’Hart Island Project, un archivio che raccoglie i dati dei sepolti sull’isola, sostenendo i cittadini nella loro ricerca contro Comune e Carcere, veri muri di gomma. Carol ha taciuto alla madre le circostanze della sepoltura di suo padre. Le ha descritto il luogo, invece: il mare vicino, il cielo blu corso dai gabbiani. Cosa dirle di più?

Che bisogna lasciare gli effetti personali al molo di City Island prima di imbarcarsi? Che una volta sull’isola si è scortati alle fosse da guardie carcerarie, come se anche i morti e non solo i loro becchini fossero in prigione? Che mai si saprà in quale di quelle fosse si trovi la bara del proprio caro, una fra centinaia di migliaia coperte dalla terra? Che la bellezza dell’isola è parca e difficile quanto la morte?

Meglio presentare l’immagine come di una foto fuori contesto, lo scorcio di una veduta. Grati, persino, che non si è mentito: il mare e i gabbiani ci sono, il cielo è quello terso della nostra costa, il mare lo splendido oceano atlantico.

Ma mentre la città si disfa dei suoi morti trascurabili e il carcere, con solennità o solo fondi insufficienti, li interra alla meglio, di quelle ossa che riemergono alla luce dopo ogni tempesta, è accusatoria ma puntuale l’amara riflessione della nipote del barbiere che certo sperava in altro quando lasciò l’Italia per l’America: “È come se la persona cui appartengono, provi un’ultima volta a dire: ‘io sono qui’”.