Il problema della scomparsa della sinistra dal panorama politico non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Unione europea e direi buona parte del mondo, almeno nell’accezione che noi diamo tradizionalmente a questa idea politica.

Come ben sappiamo dal Novecento abbiamo ereditato pesanti macerie: il «sol dell’avvenir», con la sua forza mobilitante di energie umane, di speranze di riscatto, è scomparso dal nostro orizzonte. A differenza del fascismo e nazismo che sono stati sconfitti perché hanno perso la seconda guerra mondiale, il crollo dell’Urss è avvenuto per implosione, per sradicamento, come un grande albero che crolla su sé stesso. Con la conseguenza di aprire un’autostrada al neoliberismo, al pensiero unico, al capitalismo vincente su scala mondiale.

Tuttavia, con l’arrivo del nuovo secolo, avevamo riposto grandi speranze nelle esperienze del «Socialismo del XXI secolo» in America latina, dove si sperimentava una sorta di «eco-socialismo» che riscopriva e valorizzava la Madre Terra (Pachamama), radicata nella cultura dei nativi americani. Purtroppo, anche queste sperimentazioni di vie alternative al socialismo sono poi fallite.

Pertanto ci ritroviamo nel terzo decennio del nuovo secolo senza riferimenti ideali, privi di modelli sociali a cui ispirarsi, in una continua difesa dei diritti sociali acquisiti nel passato.

D’altra parte è tutto l’Occidente che è in ritirata, resiste, cerca di mantenere le posizioni conquistate nel passato. Ma deve fare i conti con un mondo profondamente cambiato, in cui emergono nuove potenze, con il cuore del mercato mondiale spostato nello scacchiere del Pacifico: se nel 1990 la sponda atlantica, Ue e Usa rappresentavano quasi il 45% della ricchezza mondiale oggi arrivano a stento al 30 per cento.

C’è stato un passaggio epocale degli scambi dall’Atlantico al Pacifico paragonabile a quello che nei secoli XVI e XVII segnò il declino del Mediterraneo nei confronti dell’Ovest.

In questo nuovo scenario mondiale, il capitalismo trionfante, estrattivo e distruttivo, si trova di fronte a vecchie e nuove forme di lotta popolare. Se per un attimo abbandoniamo lo sguardo eurocentrico, scopriamo che in buona parte dei paesi, soprattutto in Asia, siamo di fronte ad uno scontro feroce tra i governi e le popolazioni in nome della difesa/richiesta della democrazia.

Dovunque si restringono gli spazi democratici e le democrazie parlamentari, là dove permangono, si trasformano in «democrature», con una oligarchia al potere e l’uso della repressione violenta contro chi si ribella.

Dall’India all’Indonesia, da Hong Kong a Kathmandu, dalla Tailandia all’Indonesia, al Myanmar dove un colpo di stato militare ha eliminato il problema, è ovunque un ribollire di giovani e di donne che lottano per la democrazia. Come anche in Turchia, Iran, Russia, e tanti paesi arabi e africani.

Bisognerebbe dirlo con forza e chiaramente: in questa fase della storia, la democrazia è diventata uno ostacolo allo sviluppo del capitalismo. Tra neoliberismo e autoritarismo c’è un nesso profondo, legato al fatto che questo modello di accumulazione della ricchezza genera diseguaglianze crescenti e danni pesanti agli ecosistemi, che a loro volta producono resistenze sociali che vengono represse duramente. La maggioranza della popolazione del mondo sta prendendone coscienza e combatte per il diritto alla vita.

La vecchia Europa seppure ha perso la sua corsa per l’egemonia economica, può diventare un riferimento per i popoli in lotta per la democrazia. Sempre che non si faccia a sua volta travolgere dall’onda del neoliberismo autoritario, e sia in grado di rafforzare le difese democratiche, a partire dal blocco nella vendita delle armi che sostengono questi regimi. Tenendo alta la bandiera del divieto di sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili, della ristrutturazione delle filiere produttive: solo così la transizione ecologica avrà un senso e otterrà dei risultati.