Il dubbio su cosa fare non li ha mai sfiorati, neanche per un momento: continuare a salvare i migranti nel Mediterraneo. Come farlo, vista la politica dei porti chiusi del governo italiano e l’incapacità dell’Europa a trovare un accordo comune sulla distribuzione dei richiedenti asilo, è argomento sul quale i volontari delle varie ong italiane e straniere discutono tra loro ormai da settimane. Consapevoli di avere di fronte a sé una nuova sfida: la necessità di costruire un proprio sistema di monitoraggio e allerta del Mediterraneo centrale, una struttura indipendente visto che, come denunciano in molti, «abbiamo la sensazione di essere tagliati fuori dalla Guardia costiera italiana, che comunque ci rimanda alle autorità libiche».

È CHIARO da tempo che casi come quello che di recente ha visto protagonista la nave della tedesca Sea Watch sono diventati ormai la norma e quindi destinati a ripetersi. Una minaccia che non spaventa più di tanto le ong, ma che inevitabilmente le costringe a prendere le misure con la nuova realtà: «Sappiamo che potremmo dover affrontare dei lunghi standoff, periodi nei quali potremmo restare per giorni bloccati in mare in attesa di una destinazione», ammette da Marsiglia Avra Fialas, responsabile comunicazione della ong Sos Mediterranée, un network franco-italo-tedesco-svizzero che insieme a Medici senza frontiere è stata a lungo presente nel Mediterraneo con la nave Aquarius, la prima a rimanere bloccata a giugno del 2018 dal nuovo corso inaugurato dal ministro degli Interni Matteo Salvini: sette giorni in mare prima di avere l’ok per fare rotta verso la spagnola Valencia. Scaduto a dicembre il contratto con il vecchio armatore, la ong è alla ricerca di una nuova nave per ripartire: «Siamo a buon punto», spiega Fialas. «Stiamo cambiando modello operativo, ma anche la nave dovrà avere caratteristiche diverse rispetto al passato, servono spazi più ampi sotto coperta dove alloggiare i migranti e più spazio anche per acqua e viveri. Ma occorre anche uno staff più numeroso, con più medici e psicologi».

UFFICIALMENTE il 4 febbraio è cominciata la nuova missione della spagnola Open Arms, che però non ha potuto lasciare il porto di Barcellona dove è ferma dal 14 gennaio per mancanza dell’autorizzazione da parte della guardia costiera. «Una situazione assurda» spiega il capomissione, Riccardo Gatti, appena sceso dalle nave dove nel frattempo si svolgono lavori di normale manutenzione. «Il governo ci vieta di partire affermando che i porti sono chiusi e che non avremmo le misure di sicurezza adeguate. Ma sono solo pretesti», prosegue Gatti. «Purtroppo i governi continuano a inasprire la lotta alle ong violando leggi e trattati, ma noi dobbiamo tornare in mare il prima possibile. Esserci è l’unico modo per testimoniare quanto succede».

L’impressione è comunque che l’atteggiamento genrale verso le ong sia ormai cambiato. Nel 2016 le accuse lanciate dall’agenzia europea Frontex diedero il via alla campagna di pesanti sospetti, quando non di vera criminalizzazione, delle ong, proseguita poi nel 2017 con il Codice voluto dall’allora ministro Pd degli Interni Marco Minniti e successivamente dalle affermazioni del capo politico del 5 Stelle Luigi Di Maio, che parlò delle navi che soccorrono i migranti come «taxi del mare». Per non parlare delle accuse circa presunte connivenze tra ong e scafisti, condite da altrettanto pesanti sospetti sui loro bilanci.

DOPO CHE NESSUNA delle inchieste aperte finora ha mai visto un’aula di tribunale, essendo state tutte archiviate, l’aria è cambiata. Lo si vede dalle manifestazioni di sostegno, sempre più affollate, che si susseguono a Barcellona come a Siracusa. Ma anche da una ripresa delle donazioni, che ha invertito una tendenza cominciata tre anni fa. «Improvvisamente non eravamo più gli angeli del mare, come fino ad allora eravamo descritti», spiega Annalaura Anselmi, direttore raccolta fondi di Msf. «Nel 2017 abbiamo registrano una riduzione del 7% nella raccolta fondi, pari a circa 4 milioni di euro. Una flessione riconducibile alla campagna di aggressione nei nostri confronti. Ma già nel 2018 c’è stata una ripresa dei contributi, segno che i nostri sostenitori hanno compreso il lavoro che facciamo e continuano a mostraci fiducia».
Anche Msf sta studiando come tornare al più presto in mare. E la stessa cosa vale per l’altra ong tedesca, Sea Eye, bloccata a gennaio al largo di Malta insieme a Sea Watch e la cui nave Professor Albrecht Penck è pronta a ripartire da Palma di Maiorca. Ma è chiaro a tutti che se non si viene avvisati in tempo dei barconi che si trovano in difficoltà, intervenire diventa ancora più complicato. «Oggi più che mai è stato completamente demolito sistema di soccorso, dalla costruzione degli strumenti di monitoraggio e allerta alle navi che dovrebbero intervenire», denuncia Marco Bertotto, di Msf. «Una volta c’erano le navi della guardia costiera, della missione europea Sophia, la Nato, i mercantili e le ong. Oggi di tutto questo è rimasto ben poco e per di più la Guardia costiera non si avvale pilò delle ong, anzi cerca di ostacolarle». Un’analisi che trova d’accordo la portavoce di Sea Watch in Italia, Giorgia Linardi, per la quale «il sistema di allerta non sta più funzionando come un tempo, quando a Guardia costiera chiamava direttamente le navi. Adesso abbiamo l’impressione di essere tagliati fuori dalle informazioni rispetto ai soccorsi».

La sfida allora, per quanto difficile, è provare a costruire un proprio sistema di avvistamento e allerta. «Qualcosa c’è, come ad esempio Alarm Phone (la piattaforma di volontari che trasmette gli Sos ricevuti, ndr) o come gli aerei «Moonbird» di Sea Watch e Colibrì, ma è chiaro che da soli non possono bastare».