Mentre il 7 maggio – data delle imperscrutabili elezioni britanniche – si avvicina a passo di carica con circa otto milioni di aventi diritto che di certo non voterà perché non si è iscritto in tempo al registro elettorale entro la scadenza di lunedì scorso, la campagna prosegue la sua corsa.

Tre sono i fattori da rilevare, incautamente omessi nelle previsioni della vigilia: la baldanza di un Ed Miliband rivelatosi nei contraddittori televisivi sorprendentemente tenace; i tailleurini fucsia di Nicola Sturgeon, scesi dalle Highlands a turbare il sonno ai tenutari di Westminster; e le impennate socialiste dei Verdi dell’australiana Natalie Bennett, pronti a rinazionalizzare i trasporti, stoppare del tutto l’austerity e impedire l’inesorabile privatizzazione della sanità pubblica.

Fattori la cui somma sembra essersi tradotta in puro panico tra gli spin doctor di David Cameron, almeno a giudicare dalla controsterzata delle ultime profferte, del tutto diverse dalla solita purga a base di privatizzazioni e tagli, tagli e privatizzazioni, che il suo partito propone come un disco rotto dal 2010.

Tanto da far promettere ai Tories corposi stanziamenti per l’Nhs, il sistema sanitario nazionale, cronologicamente il primo al mondo nel suo genere, fiore all’occhiello di una Gran Bretagna che nel 1945 metteva in discussione il proprio Dna classista per poi ricostruirlo pazientemente nel mezzo secolo successivo, grazie alla comoda interscambiabilità del bipartitismo anglosassone.

Che i due partiti siano ancora testa a testa nei sondaggi, ciascuno al 34%, pare del tutto ironico. Su questa base, nessuno potrà governare da solo.

Proprio l’Nhs, simbolicamente così omaggiato dalla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi diretta dal regista Danny Boyle nel 2012, e che gode di una centralità «multipartisan» in tutti i programmi elettorali, sembra essere l’unica eredità del keynesismo postbellico che tutti vogliono ancora difendere, compreso – almeno stando alle loro maldestre rassicurazioni – l’Ukip. E benché sia evidente che in cuor suo Nigel Farage sogni un modello basato sulle assicurazioni private di stampo statunitense – chi può pagare si può ammalare; agli altri, malthusianamente, tanti saluti – tutti, ma proprio tutti i partiti hanno promesso che all’Nhs riserveranno un solido sostegno finanziario. Dai magri tre miliardi di sterline l’anno promessi dallo Ukip ai sonori 24 entro il 2020-21 del Snp di Sturgeon.

Introdotto nel 1948 dal Labour di Clement Attlee, il sistema sanitario nazionale britannico si basava su tre premesse: universalità degli aventi diritto, onnicomprensività delle cure fornite e gratuità assoluta. Tre premesse che hanno tenuto dal dopoguerra a oggi, non senza aver ciclicamente subito una nevrotica foga riorganizzatrice attraverso le varie legislature: foga che tradisce la volontà condivisa – ancorché in parte repressa – di affibbiare le logiche di profitto al diritto alla salute sia da parte dei conservatori che dei laburisti, in maniera non dissimile da quanto è avvenuto, e avviene, con la pubblica istruzione.

Il prolungato, quasi sorprendente ossequio di entrambi i partiti a questo triplice principio è da ricercarsi nel profondo radicamento di quest’ultimo nell’opinione pubblica nazionale, che negli anni si è vista privatizzare banche, trasporti, acqua, gas ed elettricità. L’ennesimo, recente sondaggio in proposito, infatti, conferma che la sanità pubblica rimane la prima delle preoccupazioni dell’elettorato britannico.

Questo spiega come mai, oggi, le rispettive posizioni in campagna elettorale su di essa siano virtualmente indistinguibili: tutti vogliono difendere quanto del servizio sanitario nazionale non è ancora caduto in mani private, con gli stessi conservatori che solennemente giurano di volerlo proteggere da ulteriori tagli. Questo nonostante si scambino in modo quasi schizofrenico le parti coi laburisti: ideologicamente avversi per definizione agli ideali di comunità e socialità, i Tories si sono dovuti adattare al consenso popolare prepolitico nei confronti di un diritto inalienabile.

Dal canto loro, i laburisti – cui spetta il merito storico di aver tutelato questo diritto per primi, rendendo così la società più civile in tutti i sensi – col subordinarlo alla logica di profitto ne hanno irrimediabilmente minata l’inalienabilità.

Era un passaggio obbligato della lunga – e ben nota – marcia socialdemocratica di avvicinamento alle posizioni dell’avversario, nella convinzione di non poterlo sconfiggere altrimenti.

L’avvio della privatizzazione della sanità ha naturalmente il volto livido delle amministrazioni Thatcher: il primo tentativo di introdurre la competitività nell’Nhs risale a Kenneth Clarke, unico attuale superstite della vecchia guardia del partito e oggi cordialmente marginalizzato da Cameron, che ci provò alla fine dell’ultimo governo della «Lady di ferro», nel 1990.

Ma è continuata dietro l’inquietante sorriso blairiano. Furono i tredici anni dell’amministrazione Blair-Brown, infatti, a prolungare l’opera dei rivali, confermandone la corsa verso la logica d’impresa. E compensandola con enormi iniezioni di denaro pubblico – allora copioso grazie alla benedizione del Far West finanziario inaugurato dai predecessori – che accorciassero le liste d’attesa per le cure, che sotto i Tories erano ormai divenute bibliche.
Insomma, il vantaggio di sedici punti sui conservatori che i sondaggi danno al Labour quanto ad affidabilità in materia di sanità è, in buona parte, immeritato.

È a loro che si deve l’invenzione, indiretta e involontaria, della figura del «whistleblower», sorta di delatore benigno che, anonimamente, riferisce di malfunzionamenti e illeciti nella gestione dei nosocomi. Una figura ormai assurta agli onori delle cronache anche in ben altri contesti – basti pensare a Edward Snowden – ma che nasce proprio qui come effetto indesiderato dell’introduzione di quel target culture, la cultura dell’obiettivo, imposta dalla quasi completa managerializzazione degli ospedali.

Un’introduzione dovuta, sì, ai Tories, ma che il Labour, all’epoca «New», aveva pienamente confermato e alla quale vanno in parte addebitati i gravi episodi di quella che un orrido neologismo italiano definisce «malasanità».